Ci sono uomini che si intrecciano a luoghi, naturalmente, senza sforzo alcuno; e ne ricevono immediata accoglienza, quasi un ritorno in un ventre materno di cui s' era dimenticati l' esistenza. Questa è un po' la storia per Fabrizio Clerici e la Sicilia, che in anni di frequentazioni, contatti, racconti, hanno saputo tessere una rete di sintonie, passioni e curiosità, grazie anche alla complicità di tanti amici che nel corso di anni ormai trascorsi hanno sempre provveduto ad agevolare l' incontro. Come quella volta che il pittore giunse a Palermo per intraprendere un viaggio - e che viaggio, avrebbe ispirato anche il libro "Retablo" di Vincenzo Consolo - e venne accompagnato al Grand Hotel e des Palmes. Non a caso. Qui Clerici si diresse dritto alla reception e chiese la camera 224. «è occupata», gli venne gentilmente risposto. In realtà la camera 224 non veniva più data a nessuno - almeno per un po' di tempo è stato così - perché dentro quella stanza si era suicidato lo scrittore Raymond Roussel: e difatti era proprio per questo motivo che il pittore avrebbe voluto quella camera, perché a Roussel aveva già dedicato alcuni suoi lavori importanti: nel 1968, l' "Alba per Raymond Roussel", e qualche anno dopo, nel 1971, l' incisione realizzata appositamente per la pubblicazione dello scritto di Leonardo Sciascia, "Atti relativi alla morte di Raymond Roussel" (pubblicato dalla casa editrice Sellerio, di cui lo scrittore di Racalmuto è stato uno dei pilastri fin dalla fondazione). A questa figura particolare di pittore erudito e colto viaggiatore è adesso dedicata una antologica che propone un centinaio di opere, curata da Sergio Troisi e allestita al Convento del Carmine di Marsala, sede dell' Ente Mostra nazionale Città di Marsala (in collaborazione con l' Archivio Fabrizio Clerici che ha sede a Roma; catalogo Sellerio con tesi del curatore, Nicoletta Campanella e Marco Carapezza; l' esposizione resterà aperta al pubblico fino al 28 ottobre). Ed è proprio in direzione di Trapani che Fabrizio Clerici si diresse insieme ad alcuni amici, quando si seppe che sarebbe finalmente stato esposto il "Giovinetto di Mothia", la splendida statua ritrovata sull' isoletta di Mozia nel 1979. Dopo alcune peripezie e attese - il mulo per trasportare le persone sull' Isola era morto di reumatismi, e nella disorganizzazione generale non si sapeva a che ora sarebbe partita la piccola barca a remi che faceva da spola con lo Stagnone di Marsala - finalmente, seppure con qualche difficoltà, Fabrizio Clerici raggiunse Mothia. O meglio la statua. Perché alla sua vista, il desiderio di rimanere quanto più tempo possibile in compagnia del capolavoro si manifestò fortissima: «Una reazione stendhaliana», scrive Marco Carapezza in uno dei testi proposti nel catalogo. E così Clerici, non soddisfatto di aver ammirato lungamente il torso in marmo bianco coperto di fittissime pieghe che rivelano le forme anziché celarle, prima minaccia di far saltare il pranzo ai custodi del piccolo museo, obbligandoli a rimanere ancora lì anche per la pausa. Poi, infine, trova un singolare accordo: farsi chiudere dentro il museo con il manipolo di amici, loro e la statua, insomma, per avere più tempo e più calma per ammirarla senza interferenze di sorta. Un' immersione fuori dal tempo misurato per penetrare la bellezza che a prima vista il giovinetto gli mostra. Non basteranno né la presenza dell' archeologo Sabatino Moscati, che nel frattempo cerca di mostragli importanti frammenti di vaso, né la perplessità del custode a farlo desistere. «Ma come maestro - dice il custode - noi dobbiamo andare a mangiare, poi la barca sta via e ritorna solo stasera. Cosa vuole, che lo chiudiamo dentro?». «Gliene sarei davvero grato», rispose Clerici senza batter ciglio. E così si fa rinchiudere al museo, felice, con un gruppo di happy few, e in uno sorta di rapimento estatico scatta centinaia di fotografie che gli serviranno in seguito come riferimento e ispirazione per altri suoi lavori. Clerici si arrampica sui ponteggi metallici che inglobano la statua, la sfiora quasi per memorizzarne linee e forme, o meglio per impossessarsene nell' unico modo possibile, quello del ricordo. Che gli servirà, da lì a poco, per una preziosa serie di disegni e litografie dedicate per l' appunto al giovane di Mothia. Il celebre viaggio proseguì poi per Selinunte, altro luogo di grande suggestione per l' artista, e poi per le caratteristiche Cave di Cusa, sempre nel Trapanese, passando per una deserta Triscina. Lo scrittore e amico Vincenzo Consolo sarebbe rimasto tanto colpito dal personaggio da dedicargli un libro, "Retablo", che racconta proprio di questo straordinario viaggio - però compiuto à rebours - dal Settecentesco pittore milanese, don Fabrizio Clerici. Il rapporto intenso tra l' artista e Palermo è provato da un' opera per tutte, emblematica, di estrema sintesi pur in un connaturato simbolismo: "La media confessione palermitana" del 1954 (esiste anche una "Grande confessione palermitana", sempre della stessa data). Fabrizio Clerici dipinge due allegorie del Serpotta, e in mezzo ad esse pone una figura chiusa in una sorta di confessionale a vista, immerse in una singolare luce che ricorda certi tagli e atmosfere caravaggeschi. Il confessore, però, è una figura con teschio: un po' vivo, un po' non più esistente. Una metafora che appare di grande attualità, come del resto l' intera opera di Clerici, scrutatore dell' oggi e anticipatore del futuro servendosi di un osservatorio straordinario: il passato. PAOLA NICITA
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