Le opere di Igor Mitoraj in mostra ad Agrigento: «Nella mia scultura cerco un'eco di antichità» di Valeria Ronzani
Nato nel 1944 in Germania, a Olderan, da genitori polacchi, Igor Mitoraj è internazionalmente riconosciuto come uno dei maggiori scultori del nostro tempo. Le sue opere sono presenti nei maggiori musei del mondo e in spazi pubblici e privati, da Londra, a Parigi, Roma, New York. Il 15 aprile inaugura nella Valle dei Templi di Agrigento quella che lui identifica come la sua mostra più importante. Qui ci spiega perché. Come nasce questo progetto? Sono stato diverse volte in Sicilia e già tre-quattro anni fa ne avevamo parlato. Poi, come spesso accade, cambiano gli amministratori, cambiano gli interlocutori e le idee vengono accantonate. Finché, con quest'ultima giunta e con il sostegno della Fondazione Roma Mediterraneo, il tutto si è concretizzato. È la mostra più importante della mia carriera, la più lunga nel tempo, otto mesi, e nello spazio, diciotto opere per un chilometro e mezzo di parco. Ci spieghi meglio... Per me è un'esperienza straordinaria, dire che sono commosso è dire poco. Io sono ovviamente abituato alle mie opere, ho esposto in tanti spazi all'aperto, da quelli storici ai contemporanei come la Défense a Parigi. Ma mi faceva molta paura l'idea di esporre qui, dove c'è l'incontro diretto con le radici della nostra civiltà, senza il filtro di secoli, come è stato, per esempio, a Firenze al Giardino di Boboli. Invece qui le mie opere prendono una forza diversa. Sono stato molto attento a non invadere lo spazio dei templi, ho lasciato sempre diversi metri fra sculture e monumenti, proprio per creare un dialogo di prospettive. Con una battuta, potrei rispondere che è un ritorno a casa. Non c'è il pericolo di ricadere nell'accusa di «archeologismo» con cui viene spesso etichettato il suo lavoro? La gente ha il diritto di dire quello che vuole, ma queste sculture sono un'espressione contemporanea. Con un'eco di antichità. Io faccio le cose d'istinto, se battezzo una scultura «Icaro» è perché mi piace il nome. A me interessa il contenuto delle opere antiche, la loro anima, non la forma estetica. Mi rendo conto che le mie opere sono trappole mentali. E la gente ci casca dentro. Perché ci siamo dimenticati che veniamo dal modello greco, non solo per l'arte, penso alla filosofia, alla stessa democrazia. Il mio lavoro parla alla memoria inconscia che è dentro di noi. Ma non trovo giusto che un artista parli della sua arte, sono le sue opere che devono parlare per lui. Lei è uno dei pochi artisti in grado di mettere d'accordo critica e grande pubblico. È stato molto duro scegliere la strada del realismo? È stata una sfida difficile, all'inizio mi hanno guardato con sospetto. Ma alla scuola d'arte a Cracovia il mio maestro, Tadeusz Kantor, insegnava a capire chi sei e rispettare le proprie scelte senza scendere mai dalla nuvola romantica che c'è in te. Una lezione che si dovrebbe trasmettere ai giovani. Sono davvero assetati di conoscenza: l'anno scorso, in un incontro con gli studenti dell'Accademia di Firenze, non mi lasciavano più andare via. Probabilmente perché le sue sculture sono anche una summa di tecnica come raramente è dato vedere. Lei però non nasce pittore? Solo alcuni giorni fa è stato presentato il suo manifesto per il festival della Versiliana di Pietrasanta, in Toscana. Mi hanno insegnato a guardare l'arte e cercare di capire la propria strada. Così uno va per tentativi. Ho imparato a scolpire a Pietrasanta, dove ci sono i migliori laboratori del mondo. Quando sono arrivato lavoravo anche con sughero o legno, e i maestri artigiani mi prendevano in giro, dicevano che scolpivo col fumo. Con loro ho imparato a conoscere la materia, che è la cosa fondamentale in scultura. Se lo conosci, il marmo diventa tenero. Riguardo alla monumentalità delle opere, è anche quella una sfida. Ma c'è pure un motivo più prosaico. C'è una grande richiesta sul mercato, sono pochi gli artisti che si confrontano con le grandi dimensioni, Tony Cragg, qui in Italia Pomodoro. Io non lavoro quasi mai su commissione, ma vengono da tutto il mondo al mio studio a Pietrasanta, dove ho scelto di vivere dall'inizio degli anni Ottanta, a chiedere i miei lavori. Igor Mitoraj Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei Templi di Agrigento 15 aprile – novembre 2011
Giacomo Manzù è uno dei più grandi artisti del Novecento. Nato a Bergamo nel 1908, pressoché autodidatta, a vent’anni inizia la sua avventura di scultore arricchendo la sua formazione tra Parigi e Roma. Il successo giunge con la Biennale di Venezia del ‘36. L'amicizia con Giovanni XXIII matura la fama internazionale di Manzù, del cui lavoro si interesseranno grandi nomi come Cesare Brandi, Giulio Carlo Argan, Ludovico Ragghianti, John Rewald e tanti altri. Docente all’Accademia di Brera di Milano con Carrà, Marini e Casorati da cui si dimette per dissensi con il Ministero della Pubblica Istruzione, viene chiamato all'International Sommerakademie di Salisburgo ad insegnare scultura. Qui conosce Oskar Kokoschka insegnante di pittura e la ballerina Inge Schabel che diverrà sua moglie e musa ispiratrice. Nel ‘58 realizza il portale della cattedrale di Salisburgo con il tema dell’Amore. L’amicizia con il “Papa Buono” porterà l’artista alla definitiva realizzazione di un'opera centrale per la carriera dello scultore, la porta di San Pietro, ispirata al tema della Morte, che gli era stata commissionata molti anni prima e non era però mai stata portata a termine. Innumerevoli sono le mostre in Italia e all’estero. Sue opere sono conservate nei maggiori musei del mondo e “La Pace“ campeggia nel giardino dell’ONU a New York.
CITAZIONI: “Nel 1934, durante un breve viaggio a Roma, Manzù ebbe una visione che lo suggestionò particolarmente e gli fornì uno stimolo che si rivelò carico di sviluppi. Fu colpito, in S.Pietro, nel vedere il pontefice assiso in trono con al suo fianco due cardinali. I tre personaggi erano avvolti nei sontuosi paramenti delle grandi cerimonie. Il loro aspetto era solenne e ieratico, ma anche terribilmente umano. Sul momento quella visione non produsse che un disegno raffigurante un cardinale seduto e ammantato. La fortunata serie dei tanti celebri bronzi con quel soggetto sarebbe incominciata soltanto quattro anni dopo. Il primo dei Cardinali modellato nel 1936, Manzù addirittura lo distruggerà”. […] “Il primo della serie, un piccolo Cardinale Seduto, aveva tenuto occupato l’artista per quasi un decennio. Finalmente, nel 1950, vide la luce la prima scultura di grandi dimensioni e fu l’inizio di una ricca produzione (in tutto Manzù ne creò una cinquantina) che alternò figure sedute o stanti, piccole o più grandi del naturale. E’ ovvio che lo scultore intendesse quell’insolita raffigurazione senza intenti ritrattistici di un prelato come un simbolo, un simbolo non figurativo, ma formale, un simbolo scultoreo”. […] “I Cardinali non ebbero mai modelli in carne e ossa, furono libere invenzioni dello scultore”. Giovanni Carandente
“I cardinali di Manzù vennero sempre più essenzializzandosi in una forma triangolare, piramidale, a volte in linea curva, dinamica, a volte statica. Il cardinale è un topos culturale, tra un senza tempo egizio e una remota memoria autobiografica. C’è la magia, l’enigma , una pura geometria, ma anche una lieve insignificanza come una vana eternità” Stefano Crespi
“Con Manzù la scultura è vissuta ancora nella carezza della mano, nella sensualità, nella voce interna del corpo: dopo di lui la scultura diventerà sempre più un concetto, un’ipotesi linguistica”. Stefano Crespi
“E’ commovente ricordare, di Manzù, la convinzione che la scultura non era un concetto; . Il gesto delle mani è la scultura di Manzù. Nel gesto del corpo c’è la relazione con il mondo: il modo di vederlo, di sentirlo, di possederlo. Nel gesto c’è tutta la biografia, in ciò che ha di vita, di carezza, di turbamento, di infedeltà alle categorie”. Stefano Crespi
“Fu uno scultore e un poeta, a volte anche sommessamente sommo, della dolcezza”. Giovanni Testori
“Lei ha fatto ben più che il mio ritratto: lei ha raccontato nel bronzo la storia del mio pontificato”. Papa Giovanni XXIII
“Tutta l’opera di Manzù è scritta in un elevato idioma figurativo che è insieme moderno e antico, ma non per questo fuori dal nostro tempo. La sua produzione è piena di riferimenti agli antichi miti, saldamente collegati al territorio divenuto sua patria d'elezione: Ardea, nell'Agro Pontino [...].In questa terra ritrovò Enea, Ulisse, Penelope, Circe e ce li ha riproposti nell'attualità, come segni intangibili della nostra memoria individuale e collettiva”. Giulio Carlo Argan
“La più spiccata qualità della scultura di Giacomo Manzù è la naturalezza, quel suo saper essere di presa istantanea, comprensibile al primo sguardo e, anche, tiepida e palpitante come già fu, nel Quattrocento, la scultura di Donatello e, alla fine dell’Ottocento, quella di Medardo Rosso”. Giovanni Carandente
L’Arte di Manzù “del tutto immune dai rivolgimenti e dalle riduzioni delle avanguardie è la felice, quasi spontanea continuazione dell’arte delle grandi epoche del passato, un’arte che scorre come un ruscello fra nuovi territori ma da remote fonti”. Maurizio Calvesi
“Il primo impulso per fare una scultura, la prima emozione è quella naturale. Un bisogno naturale come bere, mangiare, fare l’amore eccetera. Poi viene il resto. La nostra legge è la forma. Che è invisibile, anzi, per me è irrangiungibile. Per qualcuno è raggiungibile per me no. Che cos’è la forma? Non si sa quando fare pieno, non si sa quando fare vuoto. Solo i geni la raggiungono. Gli altri scultori possono lavorare lo stesso, anche se sanno di non essere geni. La forma è la nostra legge, il nostro linguaggio. La forma è ciò che gli uomini hanno dentro. Questi misteri interiori dell’uomo! E’ difficile poter mettere anche una sola gocciadi vita in quello che scultore plasma”. Manzù
“Io penso che non resterò, perché io non sono un maestro. Lo so chi resterà, non certo nomi italiani. Resteranno Picasso, Brancusi, Matisse, Braque. Di questi si è sicuri. Ma del futuro io non mi preoccupo. Non ci penso. Se dovessi entrare in studio pensando di fare delle opere d’arte avrei già chiuso bottega. Voglio soltanto lavorare e fare delle opere non volgari”. Manzù
“Il mio lavoro è il ritratto della mia voce, l’incontro coi morti della ‘spagnola’ e con la natura, dai dieci ai quattordici anni. Vi è la sedia, che è l’unica eredità di casa mia, vi sono i cardinali, che sono il ricordo della mia infanzia, vi è il Cristo dell’umanità, che è stato il mio primo conforto e poi sconforto, vi è la vestaglia che portava la signora Lampugnani, vi è il partigiano impiccato che ho visto, vi sono i morti innocenti della guerra, l’incontro con Inge, che mi ha portato l’amore nella vita e nel lavoro, vi è Lenin che ho visto morto, vi sono gli incontri con Papa Giovanni, vi sono i miei figli Giulia e Mileto che vivono con me, vi sono le pieghe che mi perseguitano e, in ultimo, tutti i sacrifici con i quali vivono le mie speranze”. Manzù
ABOUT THE ARTIST Keith Perelli b. 1968 1994 MFA, Painting and Sculpture, University of Cincinnati, Cincinnati, OH 1991 BA, Painting and Printmaking, University of New Orleans, New Orleans, LA Keith Perelli is a visual artist working in painting, printmaking and drawing. His figurative work explores a variety of social political and personal issues. He is a native of New Orleans, Louisiana and teaches Drawing and Painting at NOCCA, New Orleans Center for Creative Art. He has participated in numerous, national and international invitation and juried exhibitions. He has exhibited his work at d.o.c.s. Gallery in New Orleans, Found Gallery in Los Angeles and Steve Martin Fine Art in Miami. Perelli is a recipient of the SURDNA Foundation’s Arts Teacher Fellowship, a Louisiana Division of the Arts Fellowship, and a Foundation Ratti Arts Fellowship. He has received five professional development grants from the Louisiana Division of the Arts. He was recently awarded a Downtown District Development /RTA commission for a public works project on Canal Street in New Orleans. In addition to seven solo exhibitions at d.o.c.s. Gallery, his work was selected for the Foundation Ratti “Corso Superiore,” Como, Italy, “Alan Kaprow Invitational,” Milan, Italy, “University of New Orleans 3 Person Alumni Works on Paper,” Innsbruck, Austria and “Louisiana Artists,” Alexandria Museum of Art, LA. He was also featured in “Culture of Queer,” Leslie Lohman Gallery, New York, NY and “Katrina, Catastrophe and Catharsis,” at the Fine Arts Center, Colorado Springs, Colorado. Most recently, he was awarded best of show for the “22nd September Competition,” Alexandria Museum of Art, Alexandria, LA. The artist's website: www.keithperelli.com IN HIS OWN WORDS For the past fifteen months, I have explored monotype as a means of experimenting with embedded collage and drawing within the structure of a printed painting. Embracing the unforgiving nature of the process and the unexpected were liberating aspects of this challenging medium. Included in these works are ideas in these works explore; healing as it to caner or mental illness, exploring race through the filter of one’s familial and societal experiences and complex sociological and environmental issues surrounding youth violence and crime. Creating images as monotypes became an opportunity to synthesize real and imagined elements of the figure, abstraction, nature and science due to the ability to layer and record nuances of varied mark-making tools. I found myself interested in contrasting the mathematic structure and strength of plant specimens to aspects of their vulnerability including disease, predators and cyclical mortality and progeny. The collection and integration of litter within the figures and negative spaces might also suggest touches of irony. Cigarette packages, condom wrappers, beer cups, candy papers and a fast-food crown for example, seemed reflect urban neglect and warn of indulgence. I used these objects and specimens to suggest a correlation between environment and human physiognomy. I attempted to draw from life and observation when possible. Venturing out into the neighborhood for source materials and inspiration was part of that reinforcement. Through these assemblages I sought to contrast strength and vulnerability, beauty and neglect, empathy and conceit. Within each image I sought to capture tension between human survival and our physical and mental weakness. Presenting these ideas as dissected specimens requiring visual analysis might encourage the viewer to see past conditioned responses to a deeper level of shared commonalities, experiences and feelings.