giovedì 21 aprile 2011

Giacomo Manzù






















Giacomo Manzù è uno dei più grandi artisti del Novecento.
Nato a Bergamo nel 1908, pressoché autodidatta, a vent’anni inizia la sua avventura di scultore arricchendo la sua formazione tra Parigi e Roma.
Il successo giunge con la Biennale di Venezia del ‘36.
L'amicizia con Giovanni XXIII matura la fama internazionale di Manzù, del cui lavoro si interesseranno grandi nomi come Cesare Brandi, Giulio Carlo Argan, Ludovico Ragghianti, John Rewald e tanti altri.
Docente all’Accademia di Brera di Milano con Carrà, Marini e Casorati da cui si dimette per dissensi con il Ministero della Pubblica Istruzione, viene chiamato all'International Sommerakademie di Salisburgo ad insegnare scultura. Qui conosce Oskar Kokoschka insegnante di pittura e la ballerina Inge Schabel che diverrà sua moglie e musa ispiratrice.
Nel ‘58 realizza il portale della cattedrale di Salisburgo con il tema dell’Amore.
L’amicizia con il “Papa Buono” porterà l’artista alla definitiva realizzazione di un'opera centrale per la carriera dello scultore, la porta di San Pietro, ispirata al tema della Morte, che gli era stata commissionata molti anni prima e non era però mai stata portata a termine.
Innumerevoli sono le mostre in Italia e all’estero.
Sue opere sono conservate nei maggiori musei del mondo e “La Pace“ campeggia nel giardino dell’ONU a New York.

CITAZIONI:
“Nel 1934, durante un breve viaggio a Roma, Manzù ebbe una visione che lo suggestionò particolarmente e gli fornì uno stimolo che si rivelò carico di sviluppi. Fu colpito, in S.Pietro, nel vedere il pontefice assiso in trono con al suo fianco due cardinali. I tre personaggi erano avvolti nei sontuosi paramenti delle grandi cerimonie. Il loro aspetto era solenne e ieratico, ma anche terribilmente umano. Sul momento quella visione non produsse che un disegno raffigurante un cardinale seduto e ammantato. La fortunata serie dei tanti celebri bronzi con quel soggetto sarebbe incominciata soltanto quattro anni dopo. Il primo dei Cardinali modellato nel 1936, Manzù addirittura lo distruggerà”.
[…]
“Il primo della serie, un piccolo Cardinale Seduto, aveva tenuto occupato l’artista per quasi un decennio. Finalmente, nel 1950, vide la luce la prima scultura di grandi dimensioni e fu l’inizio di una ricca produzione (in tutto Manzù ne creò una cinquantina) che alternò figure sedute o stanti, piccole o più grandi del naturale. E’ ovvio che lo scultore intendesse quell’insolita raffigurazione senza intenti ritrattistici di un prelato come un simbolo, un simbolo non figurativo, ma formale, un simbolo scultoreo”. […] “I Cardinali non ebbero mai modelli in carne e ossa, furono libere invenzioni dello scultore”.
Giovanni Carandente

“I cardinali di Manzù vennero sempre più essenzializzandosi in una forma triangolare, piramidale, a volte in linea curva, dinamica, a volte statica. Il cardinale è un topos culturale, tra un senza tempo egizio e una remota memoria autobiografica. C’è la magia, l’enigma , una pura geometria, ma anche una lieve insignificanza come una vana eternità”
Stefano Crespi

“Con Manzù la scultura è vissuta ancora nella carezza della mano, nella sensualità, nella voce interna del corpo: dopo di lui la scultura diventerà sempre più un concetto, un’ipotesi linguistica”.
Stefano Crespi

“E’ commovente ricordare, di Manzù, la convinzione che la scultura non era un concetto; . Il gesto delle mani è la scultura di Manzù. Nel gesto del corpo c’è la relazione con il mondo: il modo di vederlo, di sentirlo, di possederlo. Nel gesto c’è tutta la biografia, in ciò che ha di vita, di carezza, di turbamento, di infedeltà alle categorie”.
Stefano Crespi

“Fu uno scultore e un poeta, a volte anche sommessamente sommo, della dolcezza”.
Giovanni Testori

“Lei ha fatto ben più che il mio ritratto: lei ha raccontato nel bronzo la storia del mio pontificato”.
Papa Giovanni XXIII

“Tutta l’opera di Manzù è scritta in un elevato idioma figurativo che è insieme moderno e antico, ma non per questo fuori dal nostro tempo. La sua produzione è piena di riferimenti agli antichi miti, saldamente collegati al territorio divenuto sua patria d'elezione: Ardea, nell'Agro Pontino [...].In questa terra ritrovò Enea, Ulisse, Penelope, Circe e ce li ha riproposti nell'attualità, come segni intangibili della nostra memoria individuale e collettiva”.
Giulio Carlo Argan

“La più spiccata qualità della scultura di Giacomo Manzù è la naturalezza, quel suo saper essere di presa istantanea, comprensibile al primo sguardo e, anche, tiepida e palpitante come già fu, nel Quattrocento, la scultura di Donatello e, alla fine dell’Ottocento, quella di Medardo Rosso”.
Giovanni Carandente

L’Arte di Manzù “del tutto immune dai rivolgimenti e dalle riduzioni delle avanguardie è la felice, quasi spontanea continuazione dell’arte delle grandi epoche del passato, un’arte che scorre come un ruscello fra nuovi territori ma da remote fonti”.
Maurizio Calvesi

“Il primo impulso per fare una scultura, la prima emozione è quella naturale. Un bisogno naturale come bere, mangiare, fare l’amore eccetera. Poi viene il resto. La nostra legge è la forma. Che è invisibile, anzi, per me è irrangiungibile. Per qualcuno è raggiungibile per me no. Che cos’è la forma? Non si sa quando fare pieno, non si sa quando fare vuoto. Solo i geni la raggiungono. Gli altri scultori possono lavorare lo stesso, anche se sanno di non essere geni. La forma è la nostra legge, il nostro linguaggio. La forma è ciò che gli uomini hanno dentro. Questi misteri interiori dell’uomo! E’ difficile poter mettere anche una sola gocciadi vita in quello che scultore plasma”.
Manzù

“Io penso che non resterò, perché io non sono un maestro. Lo so chi resterà, non certo nomi italiani. Resteranno Picasso, Brancusi, Matisse, Braque. Di questi si è sicuri. Ma del futuro io non mi preoccupo. Non ci penso. Se dovessi entrare in studio pensando di fare delle opere d’arte avrei già chiuso bottega. Voglio soltanto lavorare e fare delle opere non volgari”.
Manzù

“Il mio lavoro è il ritratto della mia voce, l’incontro coi morti della ‘spagnola’ e con la natura, dai dieci ai quattordici anni. Vi è la sedia, che è l’unica eredità di casa mia, vi sono i cardinali, che sono il ricordo della mia infanzia, vi è il Cristo dell’umanità, che è stato il mio primo conforto e poi sconforto, vi è la vestaglia che portava la signora Lampugnani, vi è il partigiano impiccato che ho visto, vi sono i morti innocenti della guerra, l’incontro con Inge, che mi ha portato l’amore nella vita e nel lavoro, vi è Lenin che ho visto morto, vi sono gli incontri con Papa Giovanni, vi sono i miei figli Giulia e Mileto che vivono con me, vi sono le pieghe che mi perseguitano e, in ultimo, tutti i sacrifici con i quali vivono le mie speranze”.
Manzù

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