venerdì 1 aprile 2011
Gianni PITTA
Sintomi d'emozione.
di Mario Corfiati
Uno dei più grandi debiti che la cultura occidentale contemporanea deve al trascorso romanticismo, è senza dubbio l’esaltazione della spontaneità e della immediatezza del sentimento. Per quanto il passato Ottocento sia ormai lontano da noi cronologicamente, tuttavia sarebbe impensabile credere che esso sia totalmente svanito, tritato dall’impietoso scorrere del tempo e dalla rapidità dei mutamenti storici. Al contrario, a guardare bene, si potrebbe perfino rilevare che alcune sue caratteristiche si siano sviluppate oltre ogni aspettativa e siano vivamente operanti fra noi, sebbene magari esaltate, talvolta esasperate e portate all’estremo dai vividi contrasti che caratterizzano il nostro tormentato presente. E non solo: il ‘contemporaneo’ si distingue da ciò che non lo è proprio per la corrente onnivora propensione ad agitare le acque, all’inquieta ricerca della citazione, al rifiuto dell’obsolescenza in quanto segno della fine. Nulla in realtà termina, ma ogni stile può servire a rientrare nella subitanea e sincronica riedizione del passato come un cinico sogno ad occhi aperti, forse come una moda, come flusso psicologico tra memoria ed atto, come un riferimento di costume rispetto ad un presente alla continua ricerca di se stesso. Mi riferisco, ovviamente, al clima artistico, alle valutazioni possibili intorno alle variabili estetiche che si trasformano con incredibile velocità sotto i nostri occhi, quasi fossero esse stesse elementi integranti dei processi creativi e performativi e non, magari, parte del metasistema critico che sostiene la comunicazione sul complesso dell’arte.
Quando cominciamo ad aggirarci fra i quadri che Gianni Pitta ha scelto per questa sua esposizione, al di là della naturale piacevolezza che essi ispirano come manufatti, le domande che ci sorgono sono proprio di questa natura: è possibile cogliere in queste opere un senso attuale e condivisibile che emerga dalla loro sostanza pittorica? Vi è una identità dell’artista collocabile senza azzardate forzature nella corrente dell’attualità? È corretto cercare una collocazione critica ad una espressione personale che per sua natura rifugge dalla cogente analisi stilistica e formale? Purtroppo, non tutte queste domande possono trovare risposta, poiché è fin troppo ovvio, come vedremo, che qui l’ispirazione creativa non mira a rendersi riconoscibile, ma a stabilire una empatia profonda fra l’emersione dei contenuti artistici e la propensione alla loro fruizione, solo in parte mediata dalla interpretazione. Possiamo inizialmente considerare che, proprio il fertile terreno del patrimonio artistico a noi prossimo non esclude nulla in modo definitivo, poiché la storia stessa non si presenta più come un continuum fattuale irreversibile, ma piuttosto come un genere complesso di eventi non necessariamente collegati fra loro da un cemento ideologico: cosicché le valutazioni critiche sull’origine dei fatti artistici non fanno altro che considerare possibile, come è giusto, che ogni evento estetico di rilievo lasci emergere preminenze stilistiche ed espressive che diventano parte delle possibilità e delle opportunità creative individuali successive. L’Action Painting, ad esempio, non esaurisce il proprio successo solo nell’epoca in cui è nato e si è sviluppato, ma prelude ad una sua eventuale ridefinizione poiché il valore della dimensione psicologica e miocinetica (termine, quest’ultimo, coniato da Gillo Dorfles) diviene una acquisizione sulla strada del costante arricchimento sperimentale del gesto artistico. Si tratta di dimensioni referenziali che, al di là delle opportune giustificazioni storiche circoscritte, travalicano i confini della narrazione localizzata per espandersi verso le terre emerse del significato, verso le zone illuminate del simbolo, proprio in qualità di scoperte inalterabili e decisive che divengono autentiche macchine semantiche, propagatrici di senso e di comunicabilità. Sebbene ciò possa configgere con la convinzione che la costante ricerca del nuovo debba lasciare dietro di sé solo gli sterili residui di una forma consunta dal suo stesso trionfo, la contemporaneità favorisce paradossalmente addirittura i pretesti per una archeologia del recentissimo passato, fornendo dignità scientifica e culturale a ciò che è accaduto ieri, trasformando il mondo in un immenso repertorio di oggetti e di episodi che mostrano la variegata ampiezza di una umanità senza confini.
E, infatti, le opere qui esposte dimostrano la validità dell’atto espressivo di Gianni Pitta, della sua incontenibile voglia di esprimersi in una azione gestuale e segnica non ancorata al mondo mitico dell’espressionismo americano, ma decisamente contaminata dalle esperienze pittoriche degli anni ottanta dello scorso secolo, a suo tempo rinvigorita, se così possiamo dire, dal vorace ed ambizioso coraggio del nuovo espressionismo europeo che ha contrassegnato il ritorno alla pittura in un contesto che l’aveva vista scomparire. Le immagini sono palpabili e rimarchevoli, ogni quadro restituisce una istantanea del percorso emotivo dell’autore raccolto nella concentrazione attiva dell’esecuzione, proiettato solo nell’artigianale passione che lo spinge a rivelare le icone del suo universo. Che, inoltre, non sembrano solo indizi di un percorso personale, ma appaiono invece allargarsi verso temi più generali, che sono quelli dell’invito ad una vivacità creativa forte e non rassegnata, al sincero omaggio verso una simbologia del colore e del segno di natura premoderna e priva di artefatti, che non siano quelli dell’esperienza tecnica di una pittura intrisa di genuinità e primitivismo. E così torniamo a quelle domande poste all’inizio e vediamo che davvero l’autore si pone nell’attualità senza farsene problema, non lasciandosi influenzare dalla fredda impassibilità di cui si è resa interprete tanta arte contemporanea, fagocitata anche dall’ansia planetaria di proporre il nuovo, senza magari accorgersi che gli orizzonti tecnologici, che certamente possono abbassare la temperatura empatica del corpo creativo, sono solo una delle possibili opzioni della sperimentazione artistica contemporanea, da cui non sembra, per ora, essersi eclissato l’archetipo del demiurgo.
Infatti, qualora si voglia entrare meglio nel vivo delle immagini qui in mostra, è impossibile non avvertire di quanta parte della produzione di Gianni Pitta sia ispirata dal tema del gioco, inteso come attività ludica, da un lato, e, dall’altro, come emersione di contenuti volutamente ripescati all’interno della moltitudine iconica individuale, da una attività comunicativa contagiosamente elementare, sorridente, briosa. Il carattere tonale del suo cromatismo è forte ed aperto, come è proprio di tante espressioni infantili che non si misurano sull’abilità naturalistica, ma sulla fresca ed immediata necessità di trasferire nel mondo l’incanto di una visione fantastica ed accattivante, perché personale ed incondizionata. Veniamo sommersi da un insieme di proposte che spaziano entro un arcobaleno di emozioni in cui trovano posto figure delineate con sorprendente naturalezza, sullo sfondo di quinte bidimensionali mai ripetitive. Il gioco, si sa, è una funzione che contiene un senso. Si oppone alla serietà, non è folle e, benché attività dello spirito, non contiene una funzione morale, né virtù, né peccato. Ciò che più interessa, riferendoci all’arte, è che il gioco che la anima è innanzitutto e soprattutto un atto libero. Il gioco non è la vita “ordinaria”, ma si allontana da questa per entrare in un’attività con finalità proprie ed è essenzialmente inutile, proprio come l’arte. Essi, in pratica, non servono, nel senso che in una società dove tutto è finalizzato a qualcosa, gioco ed arte contengono entrambi il senso della libertà: simili ma non identici, si ritrovano in un percorso parallelo si accompagnano appagandosi della loro leggera inconsistenza afinalistica . L’arte è un atto libero, non obbligato, appunto come il gioco. Quest’ultimo è situato “al di fuori della razionalità della vita pratica, al di fuori della sfera del bisogno e dell’utile” (Huizinga), oppure, per citare Schiller, possiamo ricordare che “(...) fra tutte le condizioni dell’uomo proprio il gioco e solo il gioco lo rende compiuto (...)”. Naturalmente, il senso profondo di questa similarità fra gioco ed arte risiede essenzialmente nella considerazione, tutta contemporanea, che la freschezza creativa derivi dal sapersi decondizionare dalle stringenti regole dell’ovvietà e della insignificante catena del senso comune che vorrebbe piegare l’originalità alle regole della massificazione. Tale situazione, nella storia dell’arte recente, ha costituito il fondamento di ogni nuovo linguaggio artistico, che è sempre partito da un recupero di elementi ‘puri’. Oscar Wilde diceva: “L’arte (…) ha le sue origini nel lavoro di pura immaginazione e di diletto che si occupa dell’irreale e del non esistente. È questo il suo primo stadio. Poi la vita subisce il fascino di questa nuova meraviglia e chiede di essere accolta entro il cerchio magico.” Il gioco, insomma, e così l’arte che gli si accosta, magicamente lasciano emergere la bellezza dell’immaginazione e della innocente verità attingendo agli strati profondi dell’archetipo e delle modalità aprioristiche della realizzazione. Saper fare ciò è dunque un talento, un’abilità innata, un intreccio fra istinto e fantasia, la rivelazione del legame che ci unisce al passato più remoto della nostra natura da cui emergono le figure fondamentali della nostra umanità: gioia, rabbia, amore, odio, dolcezza, ironia, affetto, conoscenza, perplessità … e così via.
Nelle immagini che Gianni Pitta ci offre, dunque, si percepisce chiaramente la prorompente vitalità espressiva di un artista che ha scelto di farsi invocare, è il caso di dirlo, dalle forze schiette dell’invenzione immediata di forme nate dal suo immaginifico universo, aperto alla condivisione di quelle emozioni così rare oggi, fatte di ostinata e disarmante comunicativa, immerse nello spazio fantasioso di un mondo intimo che aspira alla bellezza della passione.
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