martedì 22 luglio 2014
Luigi SCHINGO: una testimonianza
Dal discorso commemorativo tenuto dal Magnifico Rettore della Università di Bari, prof. Pasquale Del Prete, in ricordo dell’Artista Luigi Schingo, il giorno 15 0ttobre 1977, ad un anno dalla sua scomparsa, nell’Auditorium della Biblioteca provinciale di Foggia: “…Egli, dunque, è passato, lasciando nell'opera della Sua vita, l'immagine splendente della Sua terra, la luce vivida dei Suoi colori, i bagliori incomparabili dei tramonti del Gargano, riflessi nelle trasparenze cristalline del Suo mare e sempre, dovunque, esprimendo i valori stupendi della Sua visione nelle forme semplici e pure, nella commossa serenità di una nobile sintesi stilistica che fa di Lui l’inconfondibile pittore del paesaggio dauno”.
Ho conosciuto il prof. Luigi Schingo in treno nel marzo del 1963: con mio zio Mario andavo a Bari per fare visita a dei parenti.
Il professore, così tutti lo chiamavano, aveva 72 anni, anziano ma in forma, piccolo di statura, magro, indossava un elegante cappotto color cammello che lo rendeva più simile ad un uomo di affari, un commendatore milanese più che un artista; anche il suo cappello era di buona fattura e, come si vede sui libri di Storia dell’architettura moderna, molto somigliante all’architetto Frank Lloyd Wright con cui aveva in comune i capelli bianchi di lunghezza insolita in quei tempi in cui i Beatles non erano noti.
Il motivo del viaggio del professore era quello di essere presente, per incontrare amici e visitatori, nella Galleria Niccolò Piccinni, corso Vittorio Emanuele, in pieno centro di Bari, dove si svolgeva una sua mostra personale di pittura e di scultura.
Fummo invitati dal professore, mio zio ed io, a visitare la sua mostra, dovere a cui non ci sottraemmo, e, nel pomeriggio, visitammo questa bella sala di esposizione con le pareti piene di quadri ad olio, a pastello ed acquarello, tutti paesaggi del Tavoliere di Puglia ed angoli della Bari vecchia.
Pochi anni dopo, ebbi la fortuna di visitare lo studio del professore in via Fortore, ai limiti del centro abitato di San Severo: un intero isolato di circa 450 metri quadrati, occupato per metà da un fabbricato di un solo piano e per l’altra metà lasciato a giardino privato, circondato da un alto muro di recinzione.
Il fronte dell’edificio era simmetrico ed al centro vi era situato il portone di ingresso; i pochi privilegiati ammessi oltrepassavano la soglia ed accedevano ad un atrio decorato con gli stessi elementi architettonici che il professore aveva realizzato nel Teatro comunale di San Severo.
L’edificio era diviso in due parti: a sinistra, un corridoio, con le pareti coperte di quadri dal soffitto al pavimento, conduceva ad alcune camere arredate con divani e librerie ed, in fondo, al vasto studio della scultura e, di lato, allo studio della pittura.
Dalla parte opposta si raggiungeva il locale destinato al carico e scarico delle casse da imballaggio utilizzate per il trasporto delle preziose opere del professore: alcune erano di ritorno dalla mostra personale a Roma o a Milano, altre provenivano da un concorso o erano modelli di gesso in partenza per la fonderia.
Questa attività era tenuta lontana dalle stanze destinate al lavoro creativo a causa del rumore ed erano frequentate soprattutto dagli addetti alla confezione delle casse: un lavoro faticoso ma indispensabile, simile a quello di una agenzia specializzata in trasporti.
Lo studio di scultura era l’ambiente di lavoro di maggior fascino per il visitatore: era stracolmo di modelli in gesso di opere già realizzate in pietra di Apricena, marmo bianco di Carrara o in bronzo e, sulle mensole delle pareti, si affollavano busti di uomini e donne, giovani e vecchi, personalità civili, religiose o militari, mentre su dei piedistalli erano poggiate le opere in fase di modellazione, a tutto tondo o a bassorilievo, fatte di argilla umida e ricoperte da fogli di plastica per evitarne la rapida essicazione od opere in fase di sbozzatura con il sistema dei punti e l’aiuto di compassi; questo lavoro veniva eseguito da provetti assistenti come il fidato Michele Urbano ed il giovane Antonio Priore, fior fiore degli artigiani di quel tempo in San Severo.
Il professore era molto orgoglioso del suo lavoro di scultore monumentale, forse meno poetico o piacevole delle opere a pastello o degli acquerelli, per cui viene apprezzato comunemente, ma di maggiore soddisfazione professionale per la grande quantità di lavoro e le competenze tecniche che la scultura richiede.
Lo studio di pittura era molto spazioso, bene illuminato dalla luce naturale proveniente dalla vetrata sul giardino, più intimo ed accogliente anche per lo stesso professore che qui era solito sbrigare la fitta corrispondenza e ricevere amici, galleristi, vescovi, prefetti, politici e letterati oltre che a dipingere.
Alle spalle del suo tavolo personale, ingombro di carte, erano collocati sulla parete un autoritratto giovanile ed una riproduzione in gesso delle sculture in bassorilievo del Partenone di Atene, mentre, di fronte a lui aveva voluto il busto a tutto tondo, in pietra di Apricena, dell’adorata madre Felicia Danese; questa opera venne in seguito donata dall’autore, insieme ad altre opere di carattere familiare, al Museo civico di Foggia, attualmente sono ospitate nella Pinacoteca comunale, dove costituiscono un insieme di sculture e di pitture notevole per qualità e omogeneità di contenuto.
Il professore lavorava con metodo, come si conviene ad un serio professionista: niente in lui poteva far pensare ad un artista strampalato o eccentrico: la sua vita era semplice, riservata e modesta, non si era sposato e viveva con due sorelle in una casa di corso Gramsci, andava nella chiesa di San Giovanni Battista ogni giorno per ascoltare la messa e ricevere la Comunione, poi si recava al lavoro nel suo studio fino a mezzogiorno, ora in cui, dopo avere raccolto un mazzolino di fiori nel suo giardino, a piedi, generalmente accompagnato da qualche amico, si recava a casa per il pranzo; al pomeriggio, era di nuovo al lavoro in studio fino alle venti e trenta, ora in cui il lavoro terminava ed erano ammessi visitatori e parenti.
Ricordo che, sulle pareti dello studio, erano affissi cartellini discreti ma bene in vista, che invitavano le persone presenti ad un comportamento adeguato al luogo: invitavano al silenzio, ritenuto fonte inesauribile di virtù e presupposto indispensabile della concentrazione mentale di chi non voleva essere distratto dalla sua attività creativa: in poche parole, bisognava lavorare in silenzio e, ad ogni modo, stare zitti.
Il professore era sempre vestito in modo impeccabile, sia d’estate che in inverno, era in giacca e gilet, camicia, cravatta; quando dipingeva o modellava, indossava un camice, pulito, senza macchie di colore; mentre, d’inverno, per sopportare il freddo, indossava una specie di panciotto di pelle di pecora rivoltata, forse una sua invenzione, molto simile ai montoni che si usano oggi.
Non aveva niente dell’artista tormentato o maledetto: era sempre sereno e intento al suo lavoro; ad eccezione delle Domeniche, il professore lavorava sempre, anche quando era in vacanza portava con sé, che andasse al mare o in montagna, la sua prediletta scatola in legno dei pastelli e con quella dipingeva all’alba, al mezzogiorno ed al tramonto.
Una curiosa abitudine era quella del quadro da fare a Capodanno o in occasione del suo compleanno: perché anche alla sua età, così diceva, continuava ad imparare e solo così, mettendosi alla prova e confrontando i risultati, poteva rendersi conto dei suoi progressi…
Interessante è la descrizione di Gaetano Cristino, nel libro dedicato alla collezione d’arte dell’Istituto tecnico “Pietro Giannone” di Foggia, del quadro “Trebbiatura”, che viene analizzato sviscerandone il grande interesse pittorico e documentaristico: “ Il documento è nella veduta dal vero che Luigi Schingo ci consegna, con la descrizione di una giornata estiva della campagna di Capitanata, presumibilmente nei primi decenni del Novecento, con i braccianti intenti ad alimentare di covoni la trebbiatrice meccanica e sullo sfondo le mete di paglia, verso le quali conduce la diagonale prospettica. Non è il solito paesaggio assolato, c’è anche del prato verde e un albero fronzuto vicino al cascinale. Siamo forse vicini a quel flessuoso e gaio Subappennino di cui egli stesso parlava. La lunga e sottile ciminiera della trebbiatrice sporca di fumo nerastro il cielo cilestrino. Gli inconvenienti del progresso. Pittoricamente l’opera è molto vicina alla tradizione paesaggistica napoletana, quella di Giacinto Gigante, i cui influssi dovevano essere ancora intensi quando il giovane Luigi Schingo andò a studiare nella capitale partenopea. Ma non c’è il gusto della riproduzione fedele del “panorama” che spesso faceva scadere le opere dei pittori della Scuola di Posillipo. Schingo non indulge al particolare, alla calligrafia; sente la suggestione impressionista e costruisce la scena con poche pastose pennellate di colore, questo sì, dal giallo ocra alle terre al verde smeraldo al celeste, prezioso e luminoso come quello che aveva caratterizzato l’Ottocento napoletano. L’opera non è datata, ma considerando il soggetto, la tecnica utilizzata e lo stato di conservazione va sicuramente ascritta alle opere realizzate dal Maestro nei primi decenni del Novecento.” .
Francesco Sessa
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