mercoledì 27 gennaio 2010

Autoritratto 38 di Eliana PETRIZZI











Abito in provincia. Si vede dai muri e da come i vecchi si siedono fuori le porte.
Quartiere popolare, rude e socievole come un bastardo. Lavoro ce n’è poco. La gente muore di vecchiaia o di cancro. I ragazzi si fanno tutti. Qualche ladro. Tre strozzini.
Gli uomini si sposano giovani. Le ragazze vanno in palestra quattro mesi prima di sposarsi. Dopo il matrimonio, ingrassano e sfornano figli come giumente. I cani pisciano dappertutto. Insieme al buio, cala un silenzio senza incrinature. Già alle 9 di sera, potrei camminare nuda in mezzo alla strada. Mi viene da pensare a quello che diventerò, ma non vedo assolutamente niente.
Entro in casa con una di quelle occhiate che si lanciano per strada a qualcuno che ci rassomiglia. Guardandomi allo specchio, ho avuto la sensazione di essere qualcun altra; una persona entrata di soppiatto nella stanza col viso segnato dalle tracce di una devastazione anteriore.
Mi torna in mente una vacanza a Londra. In un sexy shop, video porno e molte locandine dai rossi carichi: l’impressione è di figure rivoltate dall’interno. Entro in sala. Un uomo e una donna scopano sul palco. Lei è bionda, minuta. Lui, steso su di lei, sussulta, suda, preso dal sapore sordo della carne. I piedi di lei pendono inerti sulle spalle di lui. Vibrano appena, come certi corpi ancora vivi dopo il suicidio. Cambio di posizione; lei sopra di lui. In un rantolo di belva, lui fa di tutto ma non riesce. Dopo una ventina di minuti si alzano, salutano e con un sorriso si scusano.
Nel piatto del brodo, l’olio galleggia in dischi silenziosi come galassie. Penso al mio nome che, a dirlo e ridirlo in mente, mi diventa sempre più estraneo. Mi capita lo stesso se cambio l’oggetto del mio pensiero. Mi accorgo così che non è esistito mai niente che io sia stata veramente in grado di riconoscere; ogni cosa è neutra come vorrei fosse a volte la vita: un treno lontano che si sente appena nella notte.
Aspetto una parola senza senso, sola nell’onestà del suo splendore insignificante.
E’ domenica; giorno squartato come una carogna nella savana. Seduta su un marciapiede, ascolto l’aria che passa sugli alberi della collina. Uno strano silenzio intorno mi dice che ogni cosa, nella sua essenza, è immutata e mutevole.
Saluto qualcuno, ma non mi fermo con nessuno: parlare delle cose passate è inutile, parlare di quelle future è poco furbo perché poi, di solito, non capitano.
A mezzogiorno, sulle panchine davanti al Comune, i corpi degli uomini assumono la posizione di quelli che si vedono in TV dopo una strage. Al bar, mirabile accordo tra le persone ai tavoli e le canzoni alla radio: non ricordo né le une né le altre.
Davanti all’orologio, stupore alla vista dell’ora migrante. Nulla sopravvive alla propria definizione. Spesso neppure alla propria intenzione. La nausea del noto mi tramortisce con bruschi affondi di non-senso. Mi sfinisco tra abitudini in fila come denti digrignati in una notte di guerra. L’indifferenza cresce, spessa come un’unghia che si fa sempre più rozza.
Delle cose buone so molto poco. Se all’improvviso potessi vivere un solo giorno di pace, come farei poi senza i miei piedi scalzi, senza gli abiti bagnati? Una paura strana scompagina ogni mia intenzione. Il cuore si è fatto piccolo e buio come un seme che non ha attecchito. Ho paura della vita, del minuto prossimo come degli anni a venire: dolore di vene aperte, di unghie troppo corte. Ricorderò un giorno le mie ore migliori morte come aironi in una rete di confine. Non ho capito niente. Non ho imparato la regola della Natura in cui è ribadita senza equivoco la mia ignoranza. Non ho imparato il sereno distacco con cui è bene legarsi alla vita: il mio desiderio non si impiglierebbe in niente, ma crescerebbe al di là, privo di oggetto. L’angoscia di non riuscire a fare tutto quello che devo, non si placa neanche dinanzi alla quotidiana rivelazione di non avere niente da fare. Eppure, una luce calda mi rassicura sull’indomani. I vestiti cadono dal corpo col fruscio di una gazza che passa lontano sui pini. Mi stringo le mani sui fianchi: ho una vita stretta. Mi fa tenerezza e un po’ pena questa mia magrezza, questa pancia vuota da bambina che non è mai uscita, che non ha mai attraversato una strada.
Mi viene voglia di essere pietra, terreno, pianta sottoposta al cerchio del sole. Guardo le mie mani e non le riconosco. Capisco con chiarezza che la vita non esiste.
Chiudo gli occhi e sento la forma dell’Universo. Ho nostalgia di una Storia che mi sorprende ogni giorno nel buio di appartenenze incerte. Presto le mani ad azioni risapute, mentre fuori gli uccelli passano silenziosi come le ore, come gli altri.

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