Da Tornareccio a Milano il passo è breve per un giovane intraprendente.
Gli esordi come direttore di teatro e organizzatore di eventi musicali
lo proiettano nel vivace mondo culturale della città negli anni Sessanta.
Ma è l’amicizia con Aligi Sassu che gli apre le porte al mondo
delle arti figurative che saranno il suo primo grande amore.
Anzi, il secondo, dopo quello per “la signora delle tartarughe”
Alfredo Paglione nella sua casa di Giulianova
Non è un pittore ma parla della sua vita – e della sua carriera – mescolando i colori e stendendoli sulla tela del ricordo, un grande quadro nel quale convivono, tra stili, tonalità e intonazioni diverse, cinquant’anni di arte e d’amore. Alfredo Paglione apre la sua casa di Giulianova, un piccolo museo della pittura e scultura del secondo Novecento, con la mano fiera sulla maniglia di una porta in legno opera del famoso ebanista Giuseppe Rivadossi: decine di quadrati forati e sapientemente lavorati la compongono, in uno di questi è incastonato un numero, il 32. È il suo numero in effetti, quello che lo ha rincorso per tutta la vita. Da quella porta non si accede più alla famosa Galleria 32, per decenni la mecca di artisti ed intellettuali tra vernici dal sapore internazionale e salotti culturali di prim’ordine (come ricorda il bel libro I due soli, pubblicato nel 2007 da Vallecchi) ma la brillantezza, l’intraprendenza e la costante passione per la bellezza restano le stesse per questo rinomato gallerista partito con tanta curiosità e tanti sogni dal borgo di Tornareccio, nell’Abruzzo chietino, e approdato a Bogotà e poi a Milano per vestire la sua fortuna. Oggi il piglio imprenditoriale del mercante d’arte cede definitivamente il passo alla pazienza generosa del mecenate e del divulgatore, ma anche per questo, eppur sembra strano, ci vuole fortuna, come racconta. «Se penso a me penso subito ad una grande fortuna – esordisce – è come se nella mia vita si fossero incastrati tanti tasselli che mi hanno permesso di esprimere le mie capacità. A volte mi sento un predestinato perché mi sono trovato troppo spesso nel posto giusto al momento opportuno con le persone giuste». Ma di certo in quei momenti, in quei posti e con quelle persone, Alfredo Paglione ha saputo restarci e trarne carburante per il viaggio di una vita.
Quando ha incontrato per la prima volta questa fortuna?
«Nel 1958. È la chiave di volta di tutta la mia esistenza. In vacanza frequentavo un tenore cileno che mi presentò una musicista colombiana, Helenita Olivares, fidanzata con Aligi Sassu, che ancora oggi considero uno dei più grandi artisti del nostro tempo; lo conobbi e restai colpito da un crocifisso che realizzò per il capoletto della fidanzata; scrissi dei versi su quell’opera e stavolta ne fu colpito lui, tanto da invitarmi in estate nella sua casa di Albissola, dove aveva creato una sorta di cenacolo in cui c’erano Lucio Fontana, Asger Jorn, Agenore Fabbri, Josè Ortega, Enrico Baj, Karel Appel e tanti altri, anche Picasso; iniziai così a frequentarli quotidianamente, a tavola, nelle discussioni; ero un po’ la loro mascotte».
Era il 1960. Ventidue anni e ventidue giorni di piroscafo la portano ad avventurarsi in Colombia, alla scoperta di un antico popolo, i Chibchas, che studiò nel Museo del Oro di Bogotà…
«Venne fuori l’occasione di un servizio per la rivista Pianeta della De Agostini, e m’imbarcai. Lì fui ospite di Helenita e in quella casa la fortuna mi diede il bacio più bello: conobbi sua sorella Teresita, una splendida musicista; c’innamorammo e da allora solo la sua scomparsa, tre anni fa, ci ha separato. Lo studio però mi stava stretto, volevo far di più. Cominciai a farmi conoscere negli ambienti culturali e diplomatici, e utilizzai dei versi che Quasimodo aveva dedicato a Helenita come passepartout per accattivarmi la stampa: ero ormai un impresario avviato, ma volevo tornare in Italia».
E andò a Milano…
«Sì, vi arrivai come viceconsole di Colombia! In realtà facevo il traduttore in ambasciata per il console, e intanto cominciavo ad occuparmi di piccole mostre».
Nel frattempo però si era riaffacciato il teatro sulla sua strada.
«Un altro colpo di fortuna. Un ricco ingegnere, Angelo Pizzoli, cercava un giovane che affiancasse sua moglie Dolores Olivan nella gestione di un teatro, battezzato la Piccola Commenda, che aveva deciso di regalarle nel centro di Milano. Mentre studiavo l’arredamento decisi di riservare, in segno di gratitudine, dello spazio a Sassu; come si dice in Abruzzo “Lu setacce adà jì e adà venì…”».
Alfredo Paglione con un'opera di Aligi Sassu
Restituì insomma la cortesia?
«Solo in parte, non avrei mai smesso di ringraziarlo abbastanza. Comunque quella volta Sassu dipinse tutto il teatro con delle tempere stupende… Inaugurammo con una commedia di Harold Pinter messa in scena da Paola Borboni con la scenografia di Lucio Fontana. Fu un successo cui ne seguirono molti altri, fino a quando lasciai».
Perché?
«Perché nel ’63 avevo aperto una galleria tutta mia e diventava impossibile gestire entrambe le attività, così scelsi quella a cui ero più affezionato. Si chiamava Galleria 32 per via dell’ubicazione a quel civico di Piazza della Repubblica. Proposi a Sassu di pensarla in funzione della sua attività, era già molto noto allora, e Aligi accettò, anzi per partire mi prestò 700.000 lire che poi, dopo tre mesi, gli restituii; c’è un articolo di Oggi a ricordarlo. Misi su una scuderia di artisti intorno al suo nome trainante e l’ingranaggio funzionò; allora spopolava l’astrattismo, la moda dettava i nomi: puntai invece tutto sul figurativo, senza snobbare gli altri certo, ma la linea guida doveva essere rispondente al mio gusto, come per ogni cosa che faccio. Milano in quegli anni era in pieno fermento e trovai il mio spazio fra gli appassionati d’arte».
Inaugurava mostre di famosi artisti, con cataloghi firmati dai migliori critici e dai più bravi fotografi, come la prima con Birolli, Grosso, Manzù, Sassu e Tomea che ricalcava una famosa esposizione della galleria “Il Milione” di trent’anni prima.
«Se c’è stato un comandamento che ho sempre rispettato è stato quello di volare alto, sempre e comunque, scegliere il meglio, fare quello che altri non avrebbero pensato di poter fare: non era tutta discesa chiaramente, lavoravo duro, di giorno in galleria, di notte al teatro, fino a quando scelsi di dedicarmi solo al mestiere di gallerista».
Venne allora il successo?
«Cominciò da allora, forse da quando una mia trovata garantì alla “32” una visibilità che non avrebbe mai perso. Seppi in anticipo che la Garzanti intendeva pubblicare il libro di Françoise Gilot, la moglie di Picasso, Vivre avec Picasso; volai a Parigi e la convinsi con un francese incerto ad allestire da me una mostra quando fosse venuta a Milano per la presentazione del libro; arrivò con le sue opere e la figlia Paloma: ne parlarono tutti i giornali».
Nel 1966 si trasferì nel cuore di Brera, inaugurando con una mostra di Mario Mafai, mentre Salvatore Quasimodo, premio Nobel nel ’59, ogni sera durante la sua solita passeggiata si riposava sul divano della galleria, di cui non perdeva una vernice: fu un’involontaria e riuscitissima pubblicità che le permise il grande salto.
«Certo, da me circolavano i migliori pittori e scultori, come Manzù, Raphäel Mafai, Cassinari, Scanavino, Lam, Fontana, Treccani, de Chirico, Guttuso, Ortega, Mensa, Migneco, Campigli, Messina e potrei andare avanti per molto, specialmente con i pittori spagnoli che ho sempre amato. Con gli artisti poi, ed era un valore aggiunto notevole, si davano appuntamento in galleria critici, intellettuali e giornalisti, da Trombadori a De Grada, da Sciascia a Ungaretti, da Monteverdi agli Scheiwiller, da Buzzati a Maurizio Fagiolo dell’Arco, da De Seta a Piero Chiara, da Alfonso Gatto a Enzo Siciliano, da Rafael Alberti a Montanelli, da Gillo Dorfles a Giancarlo Vigorelli, da Gianni Brera a Vittorio Sgarbi…».
Senza contare clienti ed ospiti noti: Spadolini, Walter Chiari, Giacinto Facchetti, Giuseppe Di Stefano, i conti Rusconi, Marta Marzotto, Luca Cordero di Montezemolo, Enzo Bearzot, Inge Feltrinelli: insomma la “32” era diventata una tappa fissa per le menti più brillanti di allora che capitavano a Milano.
«Esattamente, la cultura però si faceva davvero, non era finalizzata solo al rodaggio della galleria e al mio mestiere di venditore, che pure c’era, è chiaro, e si giovava di queste presenze. Ideai per esempio una collana delle Edizioni Trentadue dal titoli “visti da”, in cui poeti e scrittori parlavano di pittori contemporanei: coinvolsi ad esempio Quasimodo, De Micheli, Fabiani, Alberti, Barberi Squarotti, Testori, Loi, Raboni, Carrieri e Sereni».
Tra i tanti nomi che ha ricordato fino ad ora, però, non c’è nessun abruzzese.
«In effetti ho avuto rapporti professionali solo con Pietro e Andrea Cascella, due eccellenti scultori, e col pittore Gigino Falconi, presentato dal poeta Giuseppe Rosato».
Un altro anno fondamentale per lei fu il 1967, quello del suo matrimonio.
«Fu anche il più prezioso, così come prezioso è stato ogni giorno trascorso con Teresita. Era una ragazza, e poi una donna, eccezionale, e un’ottima violoncellista: studiava al Conservatorio Verdi di Milano e le si prospettava una carriera di successi; scelse però di restarmi al fianco in galleria rinunciando alle sue aspirazioni di musicista. È stato il più bel regalo che mi abbia mai fatto perché ci ha permesso di vivere una vita quotidianamente in simbiosi».
Sassu divenne ufficialmente suo cognato cinque anni più tardi. Cosa vi regalò per le nozze?
«Una sua opera naturalmente, quella a cui tengo di più: una Deposizione del 1932 in cui umanità e divinità coincidono in una composizione particolare ed evocativa».
Ecco che torna il numero 32…
«Lo avevo detto, no? Anche la mia casa di Milano per esempio è al civico 32».
Oltre al 32 però c’è un altro portafortuna nella sua vita.
«Sì, la tartaruga; è legata a Teresita, la chiamavano “la signora delle tartarughe”».
Che è anche il titolo di un libro in cui compare la collezione di sua moglie, quasi mille pezzi d’arte e artigianato con questo tema; tra loro una tartaruga in rilievo in bronzo che Floriano Bodini ha dedicato, nel 1993, al trentesimo anniversario della sua galleria.
«Nel 1989 avevo cambiato nuovamente sede, da via Brera 6 a via Appiani 1. Portai avanti l’attività fino al 2000 quando scelsi di chiudere quella bella e lunga stagione della “32” con l’inaugurazione di una mostra in quattro atti, intitolata “2000. Elogio della Bellezza”».
Pressappoco in quegli anni ha iniziato a riavvicinarsi all’Abruzzo per occuparsi di occasioni d’arte. Lei non è nuovo ad atti di generosità: ricordiamo le opere donate ai Musei Vaticani o la costituzione a Milano, nel 2008, della Fondazione Crocevia dedicata a sua moglie; per questo ha sentito il bisogno di condividere con la sua regione i frutti di una carriera di successo, attraverso donazioni, comodati e rassegne culturali?
«Sì, è sempre la storia del setaccio, quando si ha fortuna bisogna in qualche modo renderne partecipi gli altri. In Abruzzo ci ho provato col cuore ma qualche volta ho dovuto fare marcia indietro».
In che senso?
«Nel senso che non mi accontento della mediocrità; non per me, ma per la tutela delle opere e dell’interesse dei cittadini a poterne fruire come si deve».
Ha donato un’ottantina di dipinti alla Galleria Civica di Arte Moderna di Palazzo d’Avalos a Vasto e un centinaio al Museo “Barbella” di Chieti; e una trentina di opere al Comune di Tornareccio e circa duecento sculture e ceramiche di Sassu al Comune di Castelli.
«E nel 2003 ho donato alla Fondazione Carichieti 58 acquerelli che mio cognato realizzò nel ’43 ispirandosi a I Promessi Sposi, permettendo così d’istituire il Centro Abruzzese Studi Manzoniani; e poi ho già disposto oppure ho in predicato molte altre cose».
La Fondazione Flaiano e il Centro Studi dannunziani le hanno infatti assegnato il premio “Mecenate d’Abruzzo”…
«Forse perché sono stato sempre molto legato a questa regione, avevo rapporti con altri galleristi, come i teramani Rizziero e Limoncelli, e sentivo sempre di dover portare il meglio nella mia terra. Il meglio per me, ovviamente, era Sassu. Venne spesso per dei concerti con Helenita e poi per lavorare alle illustrazioni dell’Alcyone di d’Annunzio. In Abruzzo stava a suo agio: aveva un nome dannunziano, Aligi, e un cognome che richiamava la nostra montagna più alta! Chiesi a lui di realizzare una grande opera per la chiesa di Sant’Andrea a Pescara nel 1964, ed esposi le centotredici opere con cui aveva illustrato la Divina Commedia al Castello Gizzi di Torre de’ Passeri, dov’è la Casa di Dante».
E adesso cosa c’è in ballo?
«Sessanta opere per il MuMi di Francavilla al Mare, trecentotrenta opere grafiche, fra cui quaranta Goya, per il Museo Archeologico di Atri, che dovrebbe dedicare dodici stanze a questa collezione, e ancora duecentodieci opere su carta, sempre di Sassu, già sistemate a Palazzo Ferri ad Atessa, dove arrivano visitatori da tutta Italia; forse è l’unico museo che funziona».
Altre cose però non hanno funzionato. Che mi dice del Museo dello Splendore?
«Un’occasione perduta per Giulianova e per tutta la regione, niente di più. Durò cinque anni e poi delle gravi circostanze mi costrinsero a ritirare tutte le opere».
Un’operazione vincente è invece la rassegna “Un mosaico per Tornareccio”, giunta alla sesta edizione, con 42 bei mosaici di noti artisti già collocati sulle facciate delle case, ma anche l’accordo con la Fondazione Carichieti che le riserverà sedici stanze nella propria sede centrale per collocarvi 130 opere della collezione…
«D’accordo, ma resta un problema di fondo. Perché con fatica provo a portare in Abruzzo i maestri dell’arte del Novecento, solo per amore della mia terra e per dare la possibilità ai giovani abruzzesi di avvicinarsi sempre più alla pittura e alla scultura, un patrimonio fondamentale del Paese in cui cresceranno, e invece qui quando doni o dai in comodato delle opere importanti le ritrovi dopo anni ancora sottochiave. Le istituzioni non riescono, o non vogliono, organizzare strutture funzionali, non pubblicizzano l’attività culturale e si resta sempre nella peggiore provincia; cambia un’amministrazione e la nuova cancella tutto quanto è stato fatto dalla precedente, magari ottime iniziative; vai in un museo e trovi i funzionari in poltrona che vogliono comandare senza avere alcuna capacità. Qui mancano professionalità e passione sincera per la cultura, la nostra classe dirigente qualche volta mi ha deluso un bel pò».
Sono in parecchi altrove a corteggiare le sue opere: le porterà via dall’Abruzzo?
«Macché, il rammarico, e a volte anche la delusione, ci può essere ma non mi pento di quel che ho fatto, nè penso di fermarmi; la tartaruga è lenta ma porta con sé la fortuna e percorre tutta la sua strada. Fino alla meta».
di Giorgio D'Orazio
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