domenica 19 febbraio 2012

La nuova Londra di Renzo Piano




Se arrivate all'ufficio di Renzo Piano venendo dalla Senna, vi sembrerà un ingresso di palazzo borghese come tanti altri: una semplice targhetta, un corridoio, un campanello, una porta di metallo. Se arrivate da nord, però, capirete immediatamente perché sulla targa non c'è scritto «Renzo Piano Architect», ma «Renzo Piano Building Workshop».
Il maestoso negozio di modellini funge da vetrina, evocando la città di artigiani che era un tempo Parigi, con gli accuratissimi edifici in miniatura che emergono da cumuli di cartone e pezzi di legno, pareti di utensili disposti con bellissimo effetto visivo e proiezioni di giganteschi spezzoni nuovi di città di tutto il mondo. Tra i colori neutrali, occhieggiano qua e là sprazzi di tonalità fruttate: rosso fiammante, arancio intenso, giallo limone, verde limetta.
Un'occhiata al Centre Pompidou, fuori dall'ufficio, rivela alcuni di questi stessi colori brillanti, applicati alla struttura di un edificio progettato più di 30 anni fa da un giovane Richard Rogers e da Renzo Piano. Questi nuovi sprazzi di colore, però, sono destinati a Londra. Nel fuligginoso hinterland dietro Centrepoint, dopo l'estremità settentrionale di Charing Cross Road, le ruspe stanno scavando un buco delle dimensioni di un isolato, che sarà riempito da un nuovo, colossale edificio di Renzo Piano, il primo che abbia mai progettato nella capitale inglese, anche se gli acuminati modellini piramidali sparsi per l'atelier sono lì a ricordarci che non sarà l'unico grosso intervento che farà a Londra.
Central St Giles, un complesso edilizio a destinazione mista, prende il nome da un quartiere del centro di Londra con una storia turbolenta. Luogo di una povertà e un sovraffollamento terrificanti, zona di forche, di catapecchie e della miseria etilica raffigurate nel Vicolo del gin, la celebre incisione di William Hogarth, l'area rimane risolutamente dissoluta, calamita per gli itineranti e gli inebriati. I suoi problemi sono aggravati dalla sfilacciata incoerenza dello spazio urbano sotto e intorno a Centrepoint, e il nuovo progetto affidato a Renzo Piano comincia ad affrontare i problemi che ruotano a queste stradine singolarmente malriuscite. La nuova struttura sostituirà un arcigno edificio di mattoni che un tempo ospitava un ufficio dei servizi segreti. È un progetto ad alta densità che include oltre 37.000 metri quadri di uffici, 11 unità commerciali e ristoranti, 109 appartamenti (la metà dei quali saranno riservati a prezzi agevolati per i dipendenti pubblici) e una piazza che occuperà più di un quarto dell'area. Con una ragnatela di percorsi che attraversano il sito, l'edificio si propone anche di diventare la base su cui reinventare tutto il quartiere.
Renzo Piano ha costruito la sua reputazione con una serie di edifici aggraziati e sofisticati, progettati per conto di istituzioni artistiche di ogni parte del mondo, dalla limpidezza della Fondazione Beyeler in Svizzera e della Menil Collection di Houston alla complessità della Morgan Library di New York e al minimalismo dello High Museum di Atlanta, per non parlare del Centre Pompidou che sta qui dietro. Piano è diventato il beniamino dei consigli di amministrazione delle istituzioni artistiche, un affidabile risolutore di problemi. Non è il primo nome che sarebbe venuto in mente a St Giles: l'eleganza artigianale dei suoi lavori poteva apparire un po' fuori posto in questo crudo ritaglio di città. Ma col suo lavoro alla Potsdamer Platz di Berlino e con lo stesso Centre Pompidou, l'architetto genovese ha dimostrato di essere perfettamente in grado di gestire interventi in ambienti urbani carichi di sfumature e contaminazioni storiche.
Mentre ce ne stiamo seduti nel seminterrato del suo ufficio parigino (il suo studio principale è a Genova), chiedo a Renzo Piano com'è riuscito, se c'è riuscito, a tenere conto di una storia tanto fitta in un moderno edificio commerciale. «Questo è tutto medievale», risponde lui agitando le braccia sopra una grossa pianta del sito. Poi si lancia in una lezione affascinante e articolata: per un'ora quasi non avrò bisogno di fargli altre domande. «La complessità è lo spirito di un frammento di una città che è cresciuto come elemento organico del tessuto», continua. «Quando si lavora nel centro storico di una città, non ci si dovrebbe preoccupare della mancanza di libertà, si dovrebbe essere grati delle restrizioni imposte. La creatività non ha bisogno di libertà, ha bisogno di regole: poi occasionalmente può essere piacevole violarle, queste regole. Io mi trovo in difficoltà quando si tratta di costruire in uno spazio aperto. Sono un grande camminatore, la prima cosa che faccio è camminare per il sito, non bisognerebbe fare nulla senza aver prima camminato sul posto».
Renzo Piano – alto, snello, con la barba – mi ricorda vagamente un prete. Ha una sicurezza calma e leggera, ma anche una sorta di fede evangelica in quello che fa. Gli chiedo dello spirito del luogo, come si comincia a fabbricare uno spazio nuovo, un luogo dotato di personalità che si sviluppi partendo dal sito invece di imporsi a esso.
«Innanzitutto teniamo conto della topografia del sito, della complessità geografica del luogo», dice. «Stiamo lavorando su una scala diversa rispetto a quella del tessuto medievale, perciò spezzettiamo l'edificio in una serie di sfaccettature. Teniamo conto del movimento del sole» – tiene il dito in aria e mi fissa – «questo è molto importante: l'ombra e la luce, l'orientamento, la trasparenza sulla strada. L'edificio vola al di sopra del sito su cui sorge, appoggiato su una base di vetro. Mi piace quest'idea che l'edificio non prende possesso della terra in modo egoistico ma dialoga con le strade. È un modo di fare le cose europeo, questo».
Gli accenno di aver visitato recentemente il nuovo grattacielo che ha progettato per la sede del New York Times e gli dico che qui a Londra mi sembra che stia facendo qualcosa di simile, rendendo l'ingresso pubblico e trasparente, creando percorsi pubblici coperti attraverso una città in cui l'ambito pubblico e quello privato di solito sono fortemente differenziati. «A New York, dopo l'11 settembre c'era la tentazione di fabbricare tutto come una fortezza, solida e chiusa. Ma abbiano scoperto che la trasparenza è più sicura dell'opacità, perché tutti possono vedere che cosa succede».
Questo, dice Piano, è l'approccio che ha adottato con St Giles. «L'edificio non tocca il suolo. Un edificio in una città intensa non dovrebbe occupare interamente il terreno, è come sfidare la gravità. L'essenza delle città è in questa piccola magia. Uno spazio urbano è uno spazio rituale per la città, dove le persone hanno la possibilità di sbarazzarsi delle differenze, nel migliore dei casi scompare perfino la paura stessa…
«Quest'idea di volare sopra il sito non è decorativa, serve ad accelerare il rituale. Siamo nel centro della città e la gente può camminare per il sito, attraversarlo, ora che l'edificio è stato sollevato, è diventato permeabile. Non è solo una trasparenza psicologica, una vetrina di un negozio, è qualcosa di fisico».
Ancora più della trasparenza, la caratteristica principale dell'edificio è il fatto di essere spezzettato in una serie di facciate a colori vivaci. Renzo Piano ha descritto l'edificio come una mela, colorata e luccicante all'esterno, bianca e friabile all'interno. Gli dico che arrivando a piedi lungo Denmark Street, la via dei negozi di chitarre a Londra, non ho potuto fare a meno di collegare i colori sgargianti degli strumenti elettrici e le nuove facciate dell'edificio che sorgerà a St Giles.
Piano sorride: «Ha ragione. Il colore viene dall'osservazione delle stradine intorno al sito, i frammenti di colori vivaci. La scala ovviamente è diversa, ma abbiamo preso il colore da questa presenza repentina di vitalità in quella parte della città: non è grigia come potrebbe pensare. Il colore aggiunge sorpresa, aiuta la frammentazione, non sono del parere che le città debbano essere noiose. Le città sono una specie di miracolo perché sono piene di sorprese, il colore è l'umorismo e la magia».
Gli chiedo del processo di progettazione, dei modellini, di come crea un'opera. «L'ufficio qui lo chiamiamo un workshop, cioè una bottega, un laboratorio. Mio padre era un costruttore edile e io sono cresciuto nei cantieri, e non ho mai abbandonato quell'idea di mestiere artigiano, di fabbricare un edificio migliore», dice. «Senza il mestiere, possiamo fare solo dei simulacri. Le facciate colorate sono in ceramica, un materiale che viene dalla terra e che ritornerà alla terra. L'ho guardato e me ne sono innamorato. Il colore è reale. Solo nelle facciate gialle ci sono 2.000 pezzi e ogni pezzo ha le sue dimensioni».
Mentre parliamo, Renzo Piano comincia a spostare il discorso sullo stato dell'architettura in generale. «Oggi gli architetti sono ossessionati dall'apparenza e dalla forma, tutti sono ossessionati dall'invenzione», dice. «Realizzare una forma nuova non è difficile, ma una forma nuova che abbia un senso è un altro discorso. La tecnologia informatica rende molto facile creare assurdità. Basta premere un pulsante e… esce fuori», dice Piano gesticolando forsennatamente, disegnando con le mani forme insensate. «Io credo nell'invenzione ma odio l'idea dello stile», aggiunge, «l'idea che gli architetti possano creare uno stile inconfondibilmente loro, la ripetizione delle proprie forme, è qui che si finisce col perdere la propria libertà».
Quasi sempre, ormai, una conversazione con un architetto finisce con l'inevitabile dichiarazione sgrava-coscienza, il pistolotto sulla sostenibilità. Renzo Piano è più raffinato della media, inserendolo in un contesto storico e culturale più generale. Parla dei giardini pensili e delle terrazze che spezzano in strati l'edificio di St Giles, poi dice: «Se l'architettura del XIX secolo era definita dalle costruzioni in metallo, il Crystal Palace e tutto il resto, e quella del XX secolo dalla rimozione modernista delle decorazioni e dalle superfici nitide e pulite, il tema centrale dell'architettura del XXI secolo dovrà essere l'umanesimo, la presa di coscienza che stiamo costruendo edifici in un mondo fragile. La sostenibilità non ha a che fare solo con l'energia, ma con tutto quanto, con la città».
Per capirlo non basta darsi da fare con le mani, bisogna darsi da fare anche coi piedi. «Come ho detto, sono un grande camminatore. Probabilmente conosco ogni singola pietra del selciato tra il mio appartamento e il mio ufficio. La parte più bella di una città è la pietra. I particolari nell'architettura hanno un'importanza enorme e il disegno del selciato è importante quanto l'edificio. La ragione per cui amiamo tanto i centri storici è che non sono progettati, ma sono costruiti su un milione di storie».
Con le scavatrici al lavoro a St Giles, la prossima storia sta cominciando.
di Edwin Heathcote
© | The Financial Times Limited [2008]. All rights Reserved
(Traduzione di Fabio Galimberti)

giovedì 16 febbraio 2012

Steven Holl Architects


























Steven Holl Architects (SHA) is a 40-person innovative architecture and urban design office working globally as one office from two locations; New York City and Beijing. Steven Holl leads the office with senior partner Chris McVoy and junior partner Noah Yaffe. Steven Holl Architects is internationally-honored with architecture's most prestigious awards, publications and exhibitions for excellence in design. Steven Holl Architects has realized architectural works nationally and overseas, with extensive experience in the arts (including museum, gallery, and exhibition design), campus and educational facilities, and residential work. Other projects include retail design, office design, public utilities, and master planning.
With each project Steven Holl Architects explores new ways to integrate an organizing idea with the programmatic and functional essence of a building. Rather than imposing a style upon different sites and climates, or pursued irrespective of program, the unique character of a program and a site becomes the starting point for an architectural idea. While anchoring each work in its specific site and circumstance, we endeavor to obtain a deeper beginning in the experience of time, space, light and materials. The phenomena of the space of a room, the sunlight entering through a window, and the color and reflection of materials on a wall and floor all have integral relationships. The materials of architecture communicate through resonance and dissonance, just as instruments in musical composition. Architectural transformations of natural materials, such as glass, stone or wood, produce thought and sense-provoking qualities in the experience of a place. Following this approach Steven Holl Architects is recognized for the ability to shape space and light with great contextual sensitivity and to utilize the unique qualities of each project to create a concept-driven design.

Steven Holl Architects specializes in seamlessly integrating new projects into contexts with particular cultural and historic importance. Several of the projects involve renovation and expansion of historically important structures, including the Cranbrook Institute of Science (Bloomfield Hills, Michigan, USA), the Sarphatistraat Offices (Amsterdam, The Netherlands), and the Sail Hybrid mixed-use project (Knokke-Heist, Belgium). In June 2007 the much celebrated addition to The Nelson-Atkins Museum of Art in Kansas City, Missouri opened to the public. Referring to the building as breathtaking Nicolai Ourossoff wrote: "By subtly interweaving his building with the museum's historic fabric and the surrounding landscape, he has produced a work of haunting power. [..] It's an approach that should be studied by anyone who sets out to design a museum from this point forward". (New York Times, June 6th 2007). In the New Yorker Paul Goldberger stated: "The building is not just Holl's finest by far, but also one of the best of the last generation. [..] Holl has produced as striking and inventive a piece of architectural form [..] and yet it is a serene and exhilarating place in which to view art". (New Yorker, April 30th 2007)

Steven Holl Architects emphasizes sustainable building and site development as fundamental to innovative and imaginative design. Incorporating green roofs, double walls and advanced mechanical systems SHA constructed the New Residence at the Swiss Embassy (Washington. D.C) according to Swiss "Minergie Standards," a higher level than the US Council for Green Building's LEED standards for minimal energy consumption. The Lake Whitney Water Purification Facility and Park (South Central Connecticut) features the largest Green Roof in Connecticut (30,000 sf), zero off-site storm water discharge, expanded wetlands for biodiversity, and geothermal heating and cooling. The project was chosen as one of the Top Ten Green projects for 2007 by the American Institute of Architects' Committee on the Environment (AIA/COTE). Throughout that year the facility was viewed as an exemplar of the standards and goals for sustainable design and construction. In Beijing, the recently completed 2 million sq.f. Linked Hybrid complex is heated and cooled by a 655-well geothermal energy system, the largest residential geothermal system in China. The project employs green roofs and a separate grey water recycling system connected to all 650 condominiums which provides all landscape irrigation including a huge central water pond with natural reeds, water lilies and wildlife. The Horizontal Skyscraper-Vanke Center (Shenzhen, China) is a vision of tropical sustainability for the 21st century, and employs sustainable strategies such as photovoltaic panels and storm water recycling.
Parallel to designing dense, sustainable urban architecture, Steven Holl Architects supports the preservation and restoration of landscape and wilderness as Lifetime Member of Sierra Club, Active Member of Scenic Hudson, Member of Natural Resources Defense Council (NRDC), and "Advocates for Wilderness"-Member of the Wilderness Society. In 1970 Steven Holl was one of three founding members of Environmental Works at the University of Washington.
Recently completed are the Cite de l'Ocean et du Surf (Biarritz, France), the Horizontal Skyscraper (Shenzhen, China), the Knut Hamsun Center (Hamaroy, Norway), the Herning Museum of Contemporary Art (Herning, Denmark) and the Linked Hybrid mixed-use complex in Beijing, China.

Steven Holl Architects has been recognized with architecture's most prestigious awards and prizes. Most recently, Steven Holl Architects' Cite de l'Ocean et du Surf received a 2011 Emirates Glass LEAF Award, and the Horizontal Skyscraper won a 2011 AIA National Honor Award. The Knut Hamsun Center received a 2010 AIA NY Honor Award, and the Herning Museum of Contemporary Art received a 2010 RIBA International award. Linked Hybrid was named Best Tall Building Overall 2009 by the CTBUH, and received the AIA NY 2008 Honor Award. Steven Holl Architects was also awarded the AIA 2008 Institute Honor Award and a Leaf New Built Award 2007 for The Nelson-Atkins Museum of Art (Kansas City).

Steven Holl is a tenured faculty member at Columbia University where he has taught since 1981. In July 2001 Time Magazine named Steven Holl as America's Best Architect, for 'buildings that satisfy the spirit as well as the eye.' Most recently, Steven Holl was awarded the 2012 AIA Gold Medal and the 2010 Jencks Award of the RIBA. Other awards include the first ever Arts Award of the BBVA Foundation Frontiers of Knowledge Awards (2008), Honorary Fellow of the Royal Institute of British Architects (2003), the Smithsonian Institute's Cooper Hewitt National Design Award in Architecture (2002), the French Grande Medaille d'Or (2001), the prestigious Alvar Aalto Medal (1998), the Arnold W. Brunner Prize in Architecture from the American Academy of Arts and Letters, and the New York American Institute of Architects Medal of Honor (1997).

AD Interviews: Steven Holl from ArchDaily on Vimeo.

venerdì 10 febbraio 2012

Paul RUDOLPH























A Road Trip Back to the Future By Fred A. Bernstein


One of the high points of my childhood on Long Island — where most buildings were as ordinary as Monopoly houses — was driving past Endo Labs, a pharmaceutical company headquarters in Garden City made of undulating surfaces of corduroy-textured concrete. Endo was part medieval castle, part flying saucer and unlike any building I had ever seen.
Much later I learned that it was the work of Paul Rudolph, a Kentucky-born architect who, in the second half of the 20th century, produced a remarkable series of buildings, virtually all of them of concrete poured into shapes so complex that users were both exhilarated and mystified, often at the same time. When he died in 1997, he was lauded as a homegrown talent who had adapted the ideas of European modernists — like Le Corbusier and Mies van der Rohe — into a uniquely American body of work.
But just a few years later, much of that work is in danger. In January, a Westport, Conn., house was bulldozed, joining several other Rudolph buildings in architecture’s junkyard. Right now, at least three buildings — a high school in Sarasota, Fla.; the Orange County Government Center in Goshen, N.Y.; and an office building in Boston built for Blue Cross/Blue Shield 45 years ago — are threatened with destruction. Still others face death by neglect.
If Rudolph’s buildings aren’t as highly valued as those of some of his contemporaries, that’s in part because they aren’t as well understood. But it isn’t difficult to become familiar with Rudolph’s prodigious output. In a Rudolph-themed road trip last month, with New York as a base, I was able to see nearly a dozen of his buildings in three days.
Rudolph’s earliest buildings are in and around Sarasota, where he worked in the 1950s after studying architecture at Harvard and serving in the Brooklyn Navy Yard during World War II. His final works are in Singapore and Hong Kong, where he was welcomed after falling out of favor with American developers. But much of his midcareer output is in the Northeast, where I made my pilgrimage. (Manhattan, Rudolph’s home for decades, has three Rudolph buildings, all town houses, but two are never open to the public and the third, completed after his death, offers only a glimpse of his talent.)
The largest of Rudolph’s works in the United States is the campus of the University of Massachusetts at Dartmouth, in southeastern Massachusetts, built in the 1960s, after Rudolph’s tenure of six years as dean of the Yale architecture school. As a young man, Rudolph had visited medieval towns in Europe, and at Dartmouth he created the equivalent in poured concrete: two vast, twisting buildings circle a campanile. At a time when modernism was largely about mass production, Rudolph went the opposite route, sculpturing a seemingly limitless variety of forms. Inside, the trip from one room to another can take you up and down six different stairways.
AFTER four years here, you get to know your way around,” Rob Dellibovi, a senior who was leading a campus tour, said. “I didn’t like it at first, but over time I’ve come to love it.”
Alan Bates, a chemistry professor, told me that no matter how much money the university spends to fix the roofs, “we’ll have puddles in the hallway if it rains tomorrow,” yet he said he was proud to work in such a distinctive setting. Friendly librarians let me tour the media center, where the screen savers on dozens of computers display the very building that contains them.
Ashley Sweeney, a high school senior from Webster, Mass., taking Mr. Dellibovi’s tour, pronounced the buildings “cool.” And they are cool, representing Rudolph’s astonishing ability — working in an age before computers — to conceive structures as complex as anything drawn by M. C. Escher and then to realize them in three dimensions.
Sixty miles to the north in Wellesley, I visited one of Rudolph’s most successful buildings. Commissioned by Wellesley College to design an arts building overlooking a collegiate Gothic courtyard, Rudolph responded with a remarkable mix of creativity and restraint. Exterior details of his Jewett Arts Center are subtle references to Gothic brickwork and tracery. Still, Rudolph’s trademarks are there: the concrete columns, shaped like four-leaf clovers, are like no others in the world, and the indoor sculpture court is a complex, multilevel space.
Some of the exterior features — like stairs to nowhere — are confounding, but a Rudolph wouldn’t be a Rudolph without puzzle pieces that don’t quite fit. At a time when most new buildings hid their guts behind glass “curtain walls,” he prodded people to notice how his buildings were assembled.
In Boston, the Government Center, designed by Rudolph and a team of associated architects, is a vast fortress-like complex of corduroy concrete sweeping around a huge site at the base of Beacon Hill. The building is overwhelming: its facade is nearly a third of a mile long. Though some find it off-putting — it may be the high-water mark of a style known as Brutalism — it represents Rudolph’s efforts to express government authority without resorting to historical motifs (though the corduroy concrete does recall the fluting of classical columns). Far more inviting is First Church in Boston, in Back Bay, which replaced a Gothic building that burned in 1968. Rudolph left the remains of the old steeple, but added his own angled sanctuary. And here the corduroy concrete is given a function: Names of church members, some from as far back as 1630, are written on strips of copper foil that nestle in the crevices lining the sanctuary.
Somewhere between the off-putting Government Service Building and the inviting church is Rudolph’s 13-story Blue Cross/Blue Shield Building, a commercial building wrapped in crisscrossing concrete struts. It is now threatened by a developer backed by the city’s mayor, who would like to put an 80-story building on its site in the city’s financial district. On March 13, the Boston Landmarks Commission issued a 90-day demolition delay, so that the developer could explore alternatives to demolition, said Roysin Bennett Younkin, the architectural historian for the commission.

The Rudolph Road Trip
From Boston, it’s a two-hour drive through Sturbridge and Hartford to New Haven and Rudolph’s most famous building: the Art and Architecture Building at Yale. Although parts of it are closed in preparation for a renovation starting this summer, it’s possible to see a lot, starting with the ground-floor architecture gallery (where a sign warns visitors to beware of unexpected steps, a trademark hazard of Rudolph’s architecture). The building, though only seven stories high, is said to have 37 separate levels. Across the street, Louis I. Kahn’s Yale Art Gallery is a model of modernist simplicity; the contrast couldn’t be greater, and yet each building has its place in the history of architecture. They are reflected in each other’s windows.
Rudolph designed half a dozen other buildings in New Haven. At his Temple Street Parking Garage, the lampposts are concrete curlicues. The Mansfield Street Apartments, owned by Yale, are a kind of hill town of brick and concrete blocks.
But it was depressing to discover that Rudolph’s 1968 Oriental Masonic Gardens complex, an experiment in prefabricated housing featured in many architecture books, has been demolished. And at his Greeley Memorial Lab, soaring spaces supported by treelike columns have been broken up into a rabbit warren of offices, a virtual shantytown within what was meant to be a light-filled pavilion. Dorie Baker, a spokesman for Yale, said, “The administration is well aware that something needs to be done.”
Another two-hour drive took me from New Haven west to Goshen, the seat of Orange County, N.Y. Goshen prides itself on quaintness, which makes the vast Paul Rudolph building in its center something of a shock. “If I took a poll in town, the building would be demolished tomorrow,” Edward A. Diana, the Orange County executive, once told me. The building is startlingly complex, a series of concrete boxes piled atop each other, creating, by Mr. Diana’s count, 87 separate roofs — all of which, he said, leak. Richard Mayfield, a spokesman for Mr. Diana, said recently that while the future of this 40-year-old building is still being debated, demolition is its most likely fate.
Ten years after he completed the Orange County Government Center, Rudolph (working with Jerald L. Karlan) sent corduroy concrete shooting 40 stories into the air in his Tracey Towers in the Bronx. Right angles are rare; the floor plans of these apartment buildings near Van Cortlandt Park suggest palm fronds drawn on a child’s Spirograph. In the words of Robert A. M. Stern, Thomas Mellins and David Fishman, authors of “New York 1960,” they are “New York’s ultimate example of futuristic design.” But they are best known for an event that made headlines in 2005: a Chinese food deliveryman was stuck in an elevator for three days. It is just possible that the architecture, which confuses even longtime residents, hampered the rescue efforts.
The lobby incorporates half a dozen levels, not always sensibly; ramps lead to stairways that lead to ramps — to nowhere. But Rudolph’s use of curves, in both plan and section, makes this one of the city’s great interiors. On three visits, I had no problem getting into the lobby (despite the presence of guards meant to turn nonresidents away). I even rode the elevators, where I told people that I had come to see the architecture. Most of them were shocked. Not one person I spoke to recognized the name Paul Rudolph.

VISITOR INFORMATION
THE University of Massachusetts at Dartmouth is near Exit 12 of Interstate 195, just south of New Bedford, Mass. A schedule of tours is at www.umassd.edu/admissions/tourschedule.cfm.
The Jewett Arts Center is at Wellesley College, 106 Central Street, Wellesley, Mass. (781-283-1000; www.wellesley.edu). (A convenient place to eat is the restaurant Blue Ginger, at 583 Washington Street, Wellesley; 781-283-5790. At lunch, a burger with mango chutney and papaya-mint salad is $16.)
In Boston, the Government Service Building hugs four streets: Cambridge, Staniford, Merrimac and New Chardon. Another view is from the Bulfinch
Hotel (107 Merrimac Street; 617-624-0202), which has double rooms starting at $189.
Worship services at First Church in Boston (66 Marlborough Street; 617-267-6730) begin at 11 a.m. on Sundays; other times, if you ask at the neighboring Park House, someone will let you in. Rudolph’s Blue Cross/Blue Shield Building is at 133 Federal Street.
In New Haven, Rudolph buildings include the Yale Art and Architecture Building, 180 York Street; a parking garage at 11 Temple Street; the Mansfield Street Apartments; and Greeley Memorial Laboratory, 370 Prospect Street.
The Orange County Government Center is on Main Street in Goshen, N.Y., about 60 miles northwest of New York.
The Tracey Towers are at Mosholu Parkway and Jerome Avenue, the Bronx.

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