domenica 17 aprile 2011
Filippo CIFARIELLO
FILIPPO CIFARIELLO, IL "GATTONERO"
Autore: Piero Giannini
Molfettese di nascita, napoletano d’adozione e di formazione culturale, romano di evoluzione e maturazione artistica. Scultore dalle istintive e indubbie capacità. Accusato di uxoricidio, assiste impotente allo sgretolarsi di una fama conquistata con caparbietà, abilità creativa e perfezione nelle forme. Si riprende, e a 40 anni ricomincia a vivere e produrre. Nulla e nessuno lo ferme-ranno più.
Genio,illusione,gloria.
Tre sostantivi a “etichettare” un artista pugliese. Il genio che è in lui, prodotto genetico inalienabile e discutibile. L’illusione del Pigmalione, stroncata, tragicamente incapace di redimere una canzonettista. La gloria che il mondo gli decreta e tributa per l’abilità di trasfondere nella creta, prima, nel marmo e nel bronzo, poi, gli stati d’animo e il pathos dei suoi modelli. Tre sostantivi, un solo nome: Cifariello.
Filippo nasce a Molfetta il 3 luglio 1864. La madre? Una fattrice di prole: diciannove figli. Il padre, Ferdinando? Un “genialoide”, diranno di lui. Svaria da una Musa all’altra per dare pane alla derelitta famiglia. Canta, strimpella più di uno strumento, compone musica. Ma intaglia legno, anche, e modella in umile argilla santi e pastori da presepe. E poi dipinge, brutti ritratti a olio, e restaura alla bell’e meglio quadri antichi. Quando tutto va male, e va sempre male, s’inventa direttore artistico di compagnie teatrali, molto di provincia ovviamente. Il paese natale gli sta stretto. Pur nella mediocrità, anela a orizzonti più vasti per il personale riscatto. Si trasferisce a Bari, quindi ad Andria. Bagaglio presso, la famiglia.
Ed è qui, nella operosa località rurale del Nord-barese, che si rivelano le attitudini del piccolissimo Filippo. Trafuga creta dalla riserva paterna, ma all’inevitabile manrovescio seguono lezioni di disegno. Papà Ferdinando ha intravisto nelle grezze linee delle statuine modellate dal figlio, estro e in-ventiva, oltre a creatività e abilità. Intanto la famiglia passa a Napoli. Gli insegnamenti paterni si diluiscono nelle numerose biricchinate del monello. Lo attirano di più i tuffi nel golfo partenopeo, le lunghe peregrinazioni nei vicoli di Forcella, le corse estenuanti sulla spiaggia in compagnia degli scugnizzi, scugnizzo pure lui.
Impara, però. A osservare, a guardarsi intorno, a cogliere le più minute sfumature nei corpi e nei volti di amici d’avventura e popolani, “la plebe più originale e più grottesca di tutto il mondo”, come la definisce il verista Renato Fucini, scrittore dell’epoca. Gli affannati vagabondaggi lo portano senza consapevolezza nei templi sacri e, segno del destino, nelle ricche sale del Museo Nazionale. Affreschi e sculture delle chiese si annullano ben presto dinanzi alla visione estatica dei tesori della Pinacoteca. E’ la folgorazione. Non ci sono ora del giorno e giorno della settimana che non vedano lo scugnizzo d’adozione sostare davanti ai capolavori romanico-ellenici delle varie collezioni e… copiarli. Piccoli pugni di creta gli spuntano numerosi dalle capienti tasche. In un niente diventano minuscole statuine che sbalordiscono custodi e sorveglianti. E anche un occasionale turista, appas-sionato d’arte. Gli compra una “venere” modellata nella cera per uno scudo. Cinque lire che conce-dono alla famiglia, sempre in ambasce finanziarie, un sospiro di sollievo e al bambino il piacere di coltivare l’ultima scoperta: il libro.
Ne legge senza farne mai indigestione. Ne acquista, anche, poiché la piccola stella dello scultore in erba ha fatto il giro dei vicoli della città, dopo l’episodio della “venere”. Si moltiplicano le richieste di statuine per i classici presepi della tradizione dei “bassi” partenopei. I teneri pollici accarezzano e scavano corpi di creta senza fatica. Instancabili e sempre più esperti, modellano le figure caratteri-stiche della cultura popolare napoletana nell’arco dell’intero periodo che lo vede costretto nel banco della scuola elementare.
Al termine degli studi, il 14enne Filippo è letteralmente sospinto nelle aule dell’Istituto di Belle Arti dalla fama che ormai lo accompagna in ogni strada cittadina. L’impatto coi primi rudimenti previsti dai programmi ministeriali è traumatico. Non accetta l’aridità dei pur necessari insegnamenti. Necessari, ovvio, per chi inizi o non possegga in sé l’ariosità delle vedute plastiche divenuta ormai suo segno peculiare e anche sua unica aspirazione. Si ribella. C’è così chi gli consiglia di cambiare mestiere. Ma c’è pure, fra i docenti, chi lo comprende e lo indirizza alla “classe dei gessi”. Superato agevolmente il primo anno, frequenta il secondo per passare quindi al corso di scultura, che termina con due riconoscimenti di notevole spessore, da qualunque ottica si osservino: medaglia al merito e premio monetario.
Quel denaro, insieme col ricavato della vendita delle piccole sculture sempre più richieste, costitui-scono le uniche fonti di reddito su cui possa contare la famiglia. E consentono al giovanissimo Filippo di mantenere un modesto studio. Qui nascono alcune delle sculture con cui partecipa alla sua prima esposizione. Una delusione, anche se la sua produzione, che si va arricchendo numerosa, non passa inosservata. In genere è la concorrenza ad adocchiarla, ma ha tutti i motivi per tacere. Comincia a dare un certo fastidio questo 17enne dal tocco lieve e preciso, dalla fantasia galoppante e dalla vivacità creativa dei soggetti rappresentati.
Decide allora di tentare la carta della notorietà a tutti i costi. Il 1982 partecipa alla grande Esposi-zione di Roma con due “lavoretti”: un autoritratto in vile terracotta (“Studio dal vero”) e una statuetta di scugnizzo (“Volgo napoletano”). Sono accettati. Si paga il viaggio per la Capitale con le duecento lire che intasca dalla vendita del busto, improvvisato in quattro e quattr’otto, di un anonimo cavaliere. Non lo precede nemmeno il nomignolo, “Gattonero”, affibbiatogli dal noto poeta ca-tanese Mario Rapisardi, rivale di Giosuè Carducci. Ma è lo stesso un trionfo. Entrambe le opere sono vendute. Il ritorno a Napoli è tutto da vivere.
Prende a frequentare il corso di nudo e si prepara alla “Promotrice”, mostra presieduta dal sindaco più sindaco che la città abbia mai avuto, il Duca di San Donato. La presentazione del neanche 19enne giovanotto a re Umberto I, ospite d’onore dell’esposizione, è di quelle che fanno spappolare i fegati: “Il più giovane degli espositori, cionondimeno il più forte scultore della mostra” è la lode del sovrano. I giornali riecheggiano il complimento e la lotta con gli invidiosi si inasprisce. Occorre dare una severa lezione allo sfrontato adolescente.
L’occasione si presenta subito col “gesso” inviato alla mostra successiva. Ancora uno scugnizzo. La perfezione delle linee, l’abbondanza di particolari nella struttura del corpo raccolto su se stesso e il sentimento di timore per la punizione vicina dipinta sul volto, sono elementi che inducono i calunniatori a lanciare l’accusa più infamante che al tempo possa sfiorare uno scultore: il pezzo non è stato modellato, è un calco! Il “Gattonero” è un “volgare formatore”.
L’onda crescente della calunnia si fa più tumultuosa alla seconda “Promotrice” cui il ventenne Filippo partecipa. L’evento, poi, che vede il re d’Italia acquistare una delle tre opere esposte, è tale da scatenare i denigratori. La plasticità del soggetto rappresentato, la palpabile riproduzione dei sentimenti sul volto addormentato, permettono ai soliti noti di affermare che il lavoro è stato creato “sul vivo”. Se così non sia, allora il Cifariello è un dio. Difronte alla malafede, più o meno scoperta, valgono poco gli attestati della stampa. Un tantino di più, invece, la personale che allestisce appositamente nel nuovo e più spazioso studio. Almeno ha il merito di tacitare i più esagitati, in quanto le sedici sculture approntate per l’occasione sono o più piccole o più grandi degli originali.
Il successo è strepitoso. C’è chi lo definisce “pazzo”. Un pazzo giovanissimo. Quanto sia veramente giovane, se ne accorgono il giorno in cui la Patria lo chiama per il servizio di leva. Parte per Roma, ma prima scolpisce la propria testa, con tanto di fez da bersagliere di sghimbescio sul capo, a testimonianza di una presenza che non può svanire solo perché si è coscritti. La chiama “O’ capo ninno”, il leader bambino pronto a sfidare chi si creda liberato della sua invadente genialità, dalla boc-ca atteggiata quasi a ghigno beffardo verso avversari e provocatori.
Anche la divisa non sa frenare i pollici. Scolpisce il busto dei sovrani, del suo comandante, simpatiche caricature degli ufficiali, e insieme recupera proventi dalla vendita di anonimi vasi in ceramica che gli “guastano” la mano. Terminata la ferma, infatti, gli è difficile riprendere il lavoro a largo respiro. Teme persino di aver esaurito quella fiamma interiore che lo ha portato ai vertici delle promesse dell’arte italiana. Poi, gradualmente, ritrova il tocco sapiente delle dita e la fantasia dei giorni migliori. Le ispirazioni si traducono con immediatezza nel solamente smarrito “linguaggio plastico” e parallelamente rinfocolano gelosie e maldicenza di coloro che hanno ritenuto di essersi liberati di lui. L’atmosfera intorno gli diventa così irrespirabile e pesante da deciderlo a cogliere al volo l’invito del Comitato romano organizzatore di una imminente esposizione. La Capitale lo riaccoglie con manifestazioni tali da convincerlo a rimanervi per sempre, in grado anche di sciogliergli dentro il magone della nostalgia. Infatti, se Molfetta gli ha dato i natali, è pur sempre Napoli che lo ha cresciuto e plasmato.
Il periodo partenopeo sta all’istinto, come il romano sta alla maturazione. L’aria intellettuale che si respira nella Capitale accanto a Gabriele D’Annunzio, Pirandello, Luigi Capuana, mescolata alle esperienze di studio di un viaggio che lo porta a Parigi e Londra quindi a Milano e Firenze, incanala la sua produzione verso il successo fuor di discussione e la maturità artistica. Passa da un trivani umido e modesto alle comodità e all’ampiezza di un vero studio in Via Margutta, dopo aver rifiutato, spirito libero e orgoglioso, incapace di asservimenti, un vitalizio di cui lo ha beneficiato l’Amministrazione Provinciale di Bari. Il gesto suscita l’ammirazione e il rispetto di un altro “grande” di Puglia: il filosofo tranese Giovanni Bovio.
Segno tangibile dell’evoluzione dello scultore sono, in ordine di tempo, tre opere: “Ad majorem Dei gloriam”, “Ultimi fiori” e “Cristo e la Maddalena”, due soggetti - un uomo torturato dall’Inquisizione e una giovinetta tisica - e un gruppo che testimoniano il livello di perfezione raggiunto. Il primo, presentato il 1889 alla grande Esposizione di Roma, subisce il non affievolito affronto del vento della calunnia che continua a spirare da Napoli. Gli si rifiutano diploma d’onore e premio di diecimila lire perché, si sentenzia pontificando, la statua è un calco, anche se le dimensioni siano superiori al reale. Il riscatto della stupenda scultura avverrà tre anni più tardi, alla Mostra di Barcellona: Gran Diploma d’onore e acquisto con destinazione Galleria d’Arte Moderna.
Ma se “Ultimi fiori” esalta la genialità creativa di Cifariello, è il gruppo del Redentore, rigidamente disteso in una lancinante immobilità cadaverica, e della Peccatrice, morbida e flessuosa nelle rotonde forme, a decretare il riconoscimento definitivo della sua valentìa. Scolpito due volte, per i danni subiti dal trasferimento marittimo verso Palermo, è il secondo “gesso”, rifatto con la morte nel cuore per il disastro, a occupare il posto centrale nel salone della Mostra Nazionale.
Pare che la grandezza e la maestosità stilistiche del tocco impresso alla figura della Maddalena, siano state influenzate dalla donna che adesso vive al fianco del Maestro. Il trentunenne “Gattonero” ha infatti sposato il 1894, un anno prima della nascita del gruppo marmoreo, una canzonettista d’avanspettacolo dalle forme perfette e dall’indiscutibile fascino. L’artista ne è rimasto stregato. Lo hanno sprofondato in un turbinio di sanguigna passione - la sua meridionalità non sa smentirsi - quei capelli “che sembravano una cascata d’oro abbagliante”, quegli occhi grigi “tigrini” in cui “brillava un sorriso di cielo di mare di bosco”, quelle pupille “di fredda metallica splendidezza” che richiamavano alla mente “abissali profondità oceaniche”. Lo stanno portando alla perdizione la freschezza della purpurea bocca “fatta per accogliere i baci lunghi della voluttà”. E le “narici palpitanti, come agitate da un continuo vento di lussuria”. E le mani, “fini e dure: le cui carezze magnetiche, nel lieve trasvolare, esprimevano una sicura forza di dominio”. E poi il “corpo perfetto, di classica purezza, da cui si effondeva il caldo profumo di una vitalità amorosa esaltante”.
Maria de Browne, in arte Blanche de Mercy, il nome della “sciantosa” di Lione che Filippo Cifariel-lo ha voluto diventasse sua legittima sposa. Moglie non all’altezza della situazione del decoro della dignità dell’uomo-artista, meridionale fin nel midollo, geloso e passionale, sanguigno e sospettoso, Maria è amante volubile che pretende tremila lire dallo spasimante di turno per lasciarsi ammirare senza veli. Al fianco delle nuove opere che infiorano e costellano il cammino dello scultore molfet-tese, cominciano a materializzarsi rabbia e dolore di frequenti abbandoni, incomprensioni intollerabili, litigi e perdoni, allontanamenti e ritorni ad amplessi furiosi con largo spargimento di lacrime. Sono sempre le sue, di Cifariello, le lacrime, mai di lei, che sembra giocare coi sentimenti e la sensibilità dell’artefice di tanti capolavori.
La tragedia è ormai vicina. Scoppia all’alba di un giorno d’agosto del 1905 nella lussuosa pensione “Mascotte” di Posillipo. La sera prima il “Gattonero” si è intrattenuto a lungo sulla veranda in com-pagnia dell’ex sindaco di Bari, comm. Giuseppe Re David. Qualcosa nella esaltazione dei discorsi e nel nervosismo esagerato manifesta uno stato d’animo esacerbato. La conferma arriva alle 5.30 del mattino: stilla da due fori piccoli e neri come nei, ravvicinati, sul petto della donna abbandonata sul tappeto accanto al letto, morta. Il destino dell’uomo s’è compiuto. Quello dell’artista ancora no. Il processo, la ricostruzione di dodici anni d’inferno vissuti accanto a un mostro di seduzione e infedeltà, e il rispettato nome sbattuto sulle pagine dei giornali, sono soltanto lievemente leniti dal verdetto della giuria: assoluzione “per vizio totale di mente”, l’amore per una donna che gliene aveva fatte di tutti i colori andava perdonato, l’artista aveva agito per troppo amore. E l’artista può così ricominciare.
E lo fa, con titanico sforzo. Ormai si è lasciato alle spalle le tante testimonianze di padronanza tecnica e poderosità espressiva alle quali ripensa con fatica e dolore: la “testa” del Cristo nel cimitero di Barletta, il monumento ai “Martiri del 1799” a Gioia del Colle e a Giuseppe Mazzini commissionatogli dai suoi concittadini per una piazza molfettese dopo il trionfo del “Cristo e la Maddalena” all’Esposizione di Palermo. Poi il superbo monumento equestre in bronzo a re Umberto I di Savoia in Bari, per aggiudicarsi il quale aveva dovuto superare il 1903 la bassa concorrenza di altro scultore (e richiedere un compenso che a malapena copriva le spese: 50mila lire), i “cavilli finanziari miserandi” del Comitato promotore del lavoro, le innumerevoli critiche dei soliti invidiosi, le tante altre avversità incontrate che non gli impediranno, comunque, di scolpire in età avanzata la possente figura, altra tre metri, del “Costruttore” per il Palazzo delle Opere Pubbliche barese. Per di più, aveva dovuto violentare la personale visione del monumento evocativo, che non deve costituire sem-plicemente una ricostruzione o rappresentazione fisica, piuttosto esaltare l’insieme di opere e perso-nalità di chi si voglia raffigurare. Pur tuttavia era riuscito a infondere all’intera scultura la maestosità che le competeva, non dimenticando il cavallo, da non considerare vieto basamento del soggetto da eternare, bensì parte integrante del tutto e come tale oggetto di studio particolare e accurato. Lo dimostrano la raffinatezza usata per la ricerca anatomica, il corretto senso delle proporzioni e so-prattutto la voluta assenza d’immobilità che si manifesta attraverso un aspetto mai considerato dai grandi di questo genere di opere. La cavalcatura infatti è scolpita nel movimento tipico dei nobili quadrupedi, procedendo sull’appoggio diagonale degli arti. Primo esempio nella monumentistica equestre.
E ancora, alle sue spalle, è rimasta tutta la produzione di bronzi e marmorei, propedeutica al periodo dei monumenti, di amici e committenti: Mario Rapisardi, il pittore Netti, la contessa Fattori, il barone Marincola, il principe reggente Leopoldo di Baviera, quindi i pugliesi Balenzano, Bovio, Re David, Di Crollalanza. Più che altro, si è lasciato dietro il quinquennio successivo al matrimonio che lo ha visto in “esilio” forzato – “vile quanto necessaria questione di denaro” - a Passau, cittadina tedesca della Baviera. Là ha prodotto una serie infinita di modelli per conto di una fabbrica di porcellane che lo ha stipendiato bene, affidandogli la direzione artistica e lasciandolo libero di continuare le sue esperienze scultoree, tanto da partecipare il 1899 alla Terza Biennale di Venezia, riscuotendo incondizionato successo. E dietro di sé ha lasciato soprattutto, fra gli altri pezzi, una “Sfinge” cui ha fatto da modella la consorte, quasi significandone la misteriosità dell’anima muliebre, dando ulte-riore dimostrazione di versatilità ed efficienza stilistiche, di conoscenza del mezzo e plasticità.
Tutto ciò è alle sue spalle e adesso Filippo Cifariello decide di riprendere, ancorché faticosamente, il proprio cammino, deludendo e amareggiando chi ne abbia pronosticato la definitiva capitolazione dopo l’uxoricidio. Tuttavia l’effetto della recente tragedia non è completamente nullo. Infatti si approfitta della sua “assenza” - che lo fa vagabondo da Parigi a Berlino, da Monaco a Vienna per dimenticare - ostacolandone i progetti di erezione dei monumenti a Giovanni Bovio e Giuseppe Verdi (questo a San Francisco, quello a Trani) con i cui bozzetti ha pur vinto i relativi concorsi.
Ma l’artista è sposo della tenacia. Urgono in lui l’ansia del riscatto e le mille pulsioni del sensitivo animo. Crea in tre studi diversi e lontanissimi: Napoli, Parigi, Vienna. Lavora come un forsennato. La “collezione” dei busti non conosce soluzione alla continuità. Finalmente può tornare a godere di una certa tranquillità economica, mai raggiunta neanche nel periodo di Passau per un mènage familiare devastante. Può abbandonare lo studio parigino e il viennese, ritirandosi in quello meraviglioso del tutto partenopeo Vomero.
Fama e notorietà non hanno limiti. Lascia ovunque segni del suo passaggio artistico. Effigia in argento, il 1912, il tenore che rimarrà nella storia della lirica, Enrico Caruso.
Si ripropone come artefice di monumenti accogliendo l’invito della città natale di eternare uno dei suoi figli più illustri, il filosofo giobertiano Vito Fornari. Riempie, impreziosendole, le piazze di Forlì, Vasto, con altrettante opere dedicate al triumviro della Repubblica Romana del 1849 Aurelio Saffi e al poeta patriota Gabriele Rossetti.
Non disdegna il teatro, scolpendo il busto di un “mostro sacro” dei palcoscenici, l’attore Ermete Novelli. I placati venti di guerra della Prima Mondiale lo ispirano fino al bozzetto per i Caduti Avellinesi, al gruppo “Giovinezza eroica” per il monumento di Bitonto e alle figure dell’Aviatore e del Bersagliere. Collabora alla preparazione delle sue sale personali nella neonata Pinacoteca Provinciale barese e nel Museo napoletano di San Martino, pronto ad accogliere il suo ritratto in bronzo cesellato.
I questo fervore di opere trova anche il tempo di soffocare gli incubi della sua tragedia familiare formandosene una nuova. Placa nella dolcezza della seconda moglie angosce non ancora sopite e nella nascita di due bambini ansie di un passato tormentato e confuso. E finalmente può dare sfogo a tutto il suo dolore da cui si accomiata, qualche anno prima di morire, con questo testamento autobiografico in prefazione alla celebrazione dei suoi 50 anni di carriera: “Sognai sempre di affrancare la mia vita per dedicarla liberamente all’arte che adoro. Questo sogno era divenuto realtà nel 1905. Il 10 agosto una follia illuminata dalle stelle, che si specchiavano nel Golfo di Posillipo, in-cenerì improvvisamente il sogno. L’uragano passionale, il raptus, il caso tipico di forza irresistibile, come fu definita la mia tragedia, fulminò 30 anni di lavoro. Nell’ora più trionfale della mia carriera! Per la inaugurazione del mio monumento equestre in Bari, dalle feste clamorose e dalle ac-coglienze regali caddi nell’abisso. Il mio amore, il lavoro, l’onore col patrimonio fu inghiottito dal-la voragine!! Il valore dell’artista non salvò i contratti dei monumenti per i quali ero impegnato: Ancona, Trani, San Francisco di California, Chicago, Roma. Mi si costrinse a cancellare la patria per vivere e dare a vivere alla madre. Non la odiai mai, però, e con essa i persecutori. Mi sarebbe riuscito facile trionfare a Vienna o a Parigi. Invece ritornai.”
Il “Gattonero” chiude i suoi giorni a 72 anni, il 5 aprile 1936, lontano dalla sua Molfetta, nell’altrettanto “sua” Napoli, in quella “città maliarda, sirena bisbetica e dispettosa” che ha assistito alla sua tragedia ma anche al suo divenire compiutamente “Filippo Cifariello”.
©2008 Piero Giannini
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