sabato 9 giugno 2012
Leonardo Benevolo, La fine della città.
“Oggi in Italia l’urbanistica è un’attività screditata, considerata con fastidio, e preferibilmente accantonata. Dovunque se ne parla malvolentieri, e il meno possibile”1. Questa è una constatazione amara che Leonardo Benevolo – uno dei più grandi urbanisti e studiosi di storia dell’architettura italiani – rivolge a Francesco Erbani. Essa, anche se è superfluo sottolinearlo, denota come in Italia le politiche di gestione del territorio siano decisamente arretrate.
In questa lunga ma scorrevole intervista curata con grande sobrietà e altrettanta sapienza da Francesco Erbani, Benevolo tocca molti temi, a partire dalla sua vita: la nascita a Orta nel 1923 da un padre che era riuscito, nonostante le umili origini, a diventare un industriale e ad acquisire una posizione sociale di rilievo e da una madre figlia di un militare. Malgrado la morte del padre e le conseguenti ristrettezze economiche, nel 1941 Benevolo si iscrive alla facoltà di Architettura dell’Università di Roma, dove trova tutti gli architetti più cari al regime fascista: Marcello Piacentini; Enrico Del Debbio, Arnaldo Foschini e altri. Un gruppo dove “alla modestia delle idee e delle capacità faceva riscontro una precisa percezione dei rapporti di forza culturali e politici” (p. 31). Più politica che talento, dunque, e Benevolo nota come ci sia una continuità tra il governo della politica urbanistica e architettonica in età fascista e quello in età repubblicana. Nei primi anni del dopoguerra, infatti, Foschini entra nella Dc e da lì egemonizza sia le realizzazioni più significative (è lui a guidare l’Ina-Casa e a decidere quali architetti potessero lavorarci) sia le carriere universitarie, rendendo difficile – e a volte impossibile – l’ingresso di molti validi professionisti in ambito accademico.
Questa continuità – a detta di Benevolo – è anche corresponsabile dello sfascio paesaggistico dell’Italia, in quanto all’interno della Dc si salda un blocco di potere che unisce il rilevante peso politico di Foschini con gli interessi della grande proprietà terriera. Benevolo nota infatti che le attività dell’Ina-casa non vengono poste in essere per rispondere all’insufficienza abitativa dell’Italia del dopoguerra, bensì per creare opportunità di impiego a beneficio della manodopera in eccesso. Proprio per questo motivo, la modalità attuativa del piano Ina-casa – nota ancora Benevolo – non è basata su una pianificazione organica, ma in sostanza viene gestita come un’operazione di consenso e di potere nei confronti degli architetti italiani, nonché come mezzo di salvaguardia degli interessi della speculazione fondiaria. È da questo modo di gestire la cosa pubblica che si creano le basi per il grande sacco territoriale e paesaggistico dell’Italia repubblicana. Si tratta di una lettura degli eventi che merita maggiori approfondimenti in sede storiografica. In ogni caso – da questo punto di vista – Erbani ha buon gioco nel ricordare a Benevolo come circa il 90% del nostro patrimonio abitativo sia stato edificato in età repubblicana.
L’autobiografia narrata di Benevolo diventa – tanto inevitabilmente quanto meritoriamente – una lente attraverso cui si scorge il dipanarsi dell’evoluzione politica dell’Italia. Nel ricordare infatti altre esperienze come quella del piano regolatore di Roma dei primi anni Sessanta, Benevolo ammette molte leggerezze degli urbanisti progressisti come lui.
Ci siamo completamente disinteressati dei metodi di attuazione del piano, sia amministrativi sia economici. Pensavamo che una volta che un’iniziativa fosse prevista dal piano stesso, essendo legge, fosse un obbligo e quindi dovesse realizzarsi automaticamente. […[ In realtà, proprio per questo disinteresse a come metterlo in pratica il piano non ha funzionato per niente.
In riflessioni come queste emerge una forte amarezza. Aver ritenuto sufficiente limitare al solo piano progettuale l’opposizione a interessi tanto consolidati, non pensando invece che in sede di traduzione pratica i portatori degli appena citati interessi avrebbero tentato di svuotare di contenuto il lavoro degli urbanisti, appare per Benevolo un’ingenuità non degna di persone che, nell’esercitare la professione, devono considerare l’uomo comune, non i privilegiati.
A tal proposito, vale la pena soffermarsi sulla concezione che dell’architettura ha lo stesso Benevolo. Egli, cattolico progressista, pur se mai aderente a nessun partito, vede tale professione come un servizio al “fratello uomo. Questo spiega la sua radicale diffidenza verso le odierne archistar (Daniel Libeskind e Frank Owen Gehry su tutti), incapaci di svolgere il loro lavoro avvalendosi della “ricerca paziente”. Le archistar, nota l’autore del celeberrimo Le origini dell’urbanistica moderna (arrivato attualmente alla ventiduesima edizione), non si occupano di analizzare il tessuto sociale, storico e culturale del luogo in cui sono chiamati a operare, ma vi calano sempre la stessa opera, adattandola solo in aspetti di marginale importanza. Per usare un lessico tanto diffuso quanto antipatico, essi non progettano bensì promuovono il loro brand, reiterandolo in tutti i contesti possibili. Le archistar sono a tutti gli effetti dei divi, l’ennesimo frutto malato della società dell’immagine, società della quale potremmo dire che sono effetto ma anche causa, in una spirale perversa che porta una parte rilevante del ceto intellettuale a non occuparsi del miglioramento delle condizioni esistenziali dell’uomo, ma solo ad alimentare il proprio narcisismo.
L’opera dell’urbanista Benevolo – svolta soprattutto a Brescia, ma anche a Urbino, Palermo e in altre città – ha sempre guardato in una direzione diversa, con un’ostinata coerenza la quale si è scontrata con gli interessi degli speculatori edilizi e assai probabilmente gli ha impedito di avere una carriera universitaria più spedita. Benevolo è uomo di grande modestia, non si rappresenta come un eroe né pensa che la speculazione possa essere un fenomeno del tutto estirpabile, ma ritiene che essa debba sempre e comunque essere governata e sottoposta all’interesse collettivo. L’esatto contrario di quanto quasi sempre si è verificato nella storia repubblicana del nostro paese.
Il libro contiene molto altro: riflessioni sulla vicenda di Fiorentino Sullo, sulla legge-ponte di Giacomo Mancini, sul rapporto con Adriano Olivetti e su quello – tormentato – con Antonio Cederna, sul progetto che lo stesso Benevolo e Vittorio Gregotti presentarono nel 1985 per l’area dei Fori imperiali e soprattutto sulla fine del ruolo della città come elemento di propulsione della nostra civiltà.
Il recensore non si soffermerà su questi temi per non togliere al lettore il piacere di affrontarli autonomamente. Quel che rimane da sottolineare è che La fine della città è un libro da cui emerge una figura, quella di Benevolo, di enorme portata culturale, capace di descrivere con puntualità un paese poco e male governato. Un libro che merita una lettura attenta e meditata.
Saverio Luzzi
1 Leonardo Benevolo, La fine della città. Intervista a cura di Francesco Erbani, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 18.
biografia di Leonardo BENEVOLO
nato a Orta S. Giulio (Novara) il 25 settembre 1923;
laureato in architettura a Roma il 20 dicembre 1946, laureato in scienze tecniche honoris causa al Politecnico di Zurigo il 28 novembre 1980, laureato honoris causa alla Sorbonne – Paris il 15 marzo 2004;
Attività accademica
assistente di Storia dell’architettura all’università di Roma dal 1947 al 1955;
professore di Storia dell’architettura nelle università di Roma, Firenze, Venezia e Palermo dal 1955 al 1977;
visiting lecturer nelle università di Yale (New Haven) nel 1969-1970, Columbia (New York) nel 1982, Caracas (Venezuela) nel 1968 e nel 1972, Teheran nel 1971, Rio de Janeiro nel 1980 e Hosei (Tokyo) nel 1986;
professore di Storia del territorio all’accademia di architettura dell’università della Svizzera Italiana dal 1996 al 2003
Premi
premio Libera Stampa (Lugano) 1964
Medaille de l’Histoire de l’Art de l’Académie d’Architecture di Parigi, 1985
Premio Capri, 1989
Medaglia d’oro ai benemeriti della scuola della cultura e dell’arte, Presidenza della Repubblica Italiana, 2003
Principali lavori di architettura e urbanistica
Ha svolto attività di consulenza e ideazione nel campo della pianificazione urbanistica e della progettazione architettonica dalla fine degli anni ’50, per diverse città: Bologna, Ferrara, Brescia, Urbino, Modena, Venezia, Roma, Palermo, Torino, ecc.
Principali pubblicazioni
Storia dell’architettura moderna (1960), Introduzione all’architettura (1960), Le origini dell’urbanistica moderna (1963), Storia dell’architettura del Rinascimento (1968), Roma da ieri a domani (1971), Corso di disegno per i licei scientifici (1974), Storia della città (1975), La casa dell’uomo (1978), Roma oggi (1977), La laurea dell’obbligo (1979), La tecnica del disegno (con G. Covelli, 1982), Urbino (con P. Boninsegna, 1986), Storia della città orientale (1988), La cattura dell’infinito (1991), La città nella storia d’Europa (1993), I confini del paesaggio umano (con B. Albrecht, 1995), L’Italia da costruire (1996), Venezia, il nuovo piano urbanistico (1996), L’architettura nell’Italia contemporanea (1998) ), Le origini dell’architettura (2002), San Pietro e la città di Roma (2004), L’architettura del nuovo millennio (2006) per la casa editrice Laterza di Bari;
I segni dell’uomo sulla terra (Accademia di Architettura, Università della Svizzera Italiana, 2001), La città italiana nel Rinascimento (1976), per la casa editrice Il Polifilo di Milano;La tecnica dell’uomo (1980), per la casa editrice Sansoni di Firenze; Roma - Studio per la sistemazione dell’area archeologica centrale (1985) e Roma - L’area archeologica centrale e la città moderna (con F. Scoppola, 1988), per la casa editrice De Luca di Roma; Le metamorfosi della città, a cura e con saggio su Roma, per le edizioni del Credito Italiano (1997);
I principali testi sono stati tradotti in francese, inglese, tedesco, spagnolo, portoghese, svedese, ungherese, polacco, greco, turco, arabo, cinese e giapponese.